Bologna 2021-26 – Arte in catene per la politica (corriere.it)

di Flavio Favelli

Se il sindaco vuole solo un’arte «di servizio»

Pochi giorni fa in Sala Borsa, il sindaco e l’ex delegata alla cultura, hanno presentato il libro insieme all’autrice Milena Naldi, Arte pubblica a Bologna, Sculture dal dopoguerra ad oggi , edito da Pendragon, che raccoglie 75 opere: due terzi sono state commissionate e sono dedicate a eventi e fatti della città; la metà sono dedicate a morti e caduti.

Prevale quindi l’idea di un’arte commemorativa che deve rispondere a una società che vede nell’arte una sentinella della memoria. Negli ultimi dieci anni, su tredici sculture, dodici sono state commissionate per uno scopo preciso; l’artista viene così interpellato per cercare di risolvere le esigenze concrete della città o per fare monumenti funerari.

Così le opere d’arte nello spazio pubblico sono considerate solo come mezzo e nemmeno così autonome rispetto alle opere pubbliche sui generis; come scrive il sindaco nel catalogo della mostra: «Le opere pubbliche, d’arte e non solo (sic! ndr), sono lo specchio della società che le commissiona e le realizza…

Questa è una responsabilità che sentiamo molto forte nel ridefinire lo spazio pubblico e urbano nel disegno urbanistico e culturale che stiamo portando avanti in questi anni. Un disegno che metta al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni, e dove l’arte può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Un’introduzione chiara di un politico al libro Arte pubblica a Bologna, che dice cosa debba essere e fare l’arte, che, al pari dei marciapiedi e delle ciclabili, è fatta dalla società che le commissiona e serve a mettere «al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni», e, se proprio lo si vuole, l’arte «può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Almeno nella Fontana del Nettuno, anche se comandava il Papa, c’è scritto oltre che «Fatta con soldi pubblici» e «Fatta ad uso del popolo», anche «Fatta per ornare la piazza», ma il sindaco, da robusto materialista, sulla questione estetica, che considera roba da élite, non ne vuole sapere.

D’altra parte nel lessico populista, come ha detto un altro sindaco robusto, quello di Venezia, commentando il Padiglione Italia all’ultima Biennale, «l’arte dovrebbe arrivare al cuore di tutti… non essere soltanto per le élite … ascoltare il popolo, ascoltare la gente…» Come pensa anche l’amministrazione bolognese e infatti sulla politica culturale e sull’arte non c’è nessuna differenza fra il sindaco di destra e quello di sinistra, perché il populismo ha le stesse idee: il popolo sovrano, come avviene nella Cina di oggi, perfetta sintesi fra antica tradizione e socialismo reale, taglia fuori gli intellettuali e decide, mediante i suoi delegati, che arte fare, la quale deve ascoltare il popolo ed essere fatta dalla società come scrive il sindaco di Bologna.

Del resto un riferimento dell’amministrazione bolognese è Kilowatt con la Serra Madre (forse di tutte le Battaglie e dell’Avvenire), dove l’arte esiste ed è ammessa solo perché dialoga con «centri di ricerca, aziende e cittadinanza sui temi legati a sostenibilità, innovazione e ambiente», al servizio di un MinCulPop.

O commemorazione di defunti o chiamata su commissione per cercare di risolvere qualche problema urbano o al verbo della nuova trinità, sostenibilità, innovazione e ambiente o per completare il disegno culturale di tipo sovietico, finalmente l’arte farebbe qualcosa di buono.

«L’arte serve o sparecchia?» Si chiedeva Achille Bonito Oliva e in una brillante intervista aggiungeva «è la necessità di un lusso; la sua funzione non è riducibile e cronometrabile in un ambito temporale breve; è il segno di una società libera dove non si pongono linee né di destra né di sinistra, né neorealismo né Novecento».

A Bologna, invece, siamo sicuri: l’arte serve, eccome.

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