La voce della Storia di Elsa Morante (doppiozero.com)

di Elena Porciani

Una storia romanzesca

La Storia offre una peculiare variante della formazione di compromesso fra realistico e romanzesco che sostiene la narrativa maggiore di Morante.

In questa direzione, si deve in primo luogo registrare l’alta frequenza in chiave di paragone e similitudine di termini come “impresa”, “eroe”, “favola”, “fantastico”, oltre al consueto “avventura”. Sono tuttavia principalmente due le aree della Storia in cui agisce l’azione dell’immaginario romanzesco dell’autrice: l’elevato numero di sogni e visioni dei personaggi e il ricorso al cronotopo della strada.

Circa quaranta sono le sequenze oniriche vere e proprie, dettagliate o solo menzionate come i «tòppi sogni» di Useppe, alcune delle quali costituite da gruppi di sogni consecutivi, altre relative persino ad animali, come nel caso del «sogno d’amore» di Blitz.

Non meno cospicuo e variegato è il corpus dei sogni a occhi aperti, nelle varie declinazioni di «sogni bovaristici» come quelli di Nora, di ideali politici come la rivoluzione «sognata» da Giuseppe Ramundo, ma anche le follie distorte di «Mussolini e Hitler [che], a loro modo, erano dei sognatori», di allucinazioni come quelle di Davide sotto gli effetti della droga.

Nel romanzo, tuttavia, i sogni non esauriscono il loro ruolo nelle più svariate forme di contenitori psichici. Morante recupera la sua antica fascinazione romanzesca per l’onirico conferendole un nuovo spessore antropologico-trascendente, tale da creare una formazione di compromesso con la più immediata dimensione realistica del romanzo storico.

Siamo di fronte, detto altrimenti, a una nuova manifestazione dell’ipergenere romanzo della scrittrice, al cui interno i modi narrativi del realistico e del romanzesco sono posti in dialogo tra di loro in una maniera che è ancora diversa rispetto a Menzogna e sortilegio L’isola di Arturo. Di qui la circostanza che il personaggio che sogna più di tutti, anche se rari sono i sogni lieti, sia Ida. Ciò potrebbe sembrare a prima vista in contraddizione con il fatto che Ida appaia la figura più miserevole del romanzo, ma in realtà in tal modo si corrobora lo speciale rapporto che essa intrattiene con la sfera del sacro.

L’ipertrofica vita onirica di Ida, legata alle sue deboli difese cognitive ancora prima che culturali, rende il suo inconscio più esposto all’invasione della Storia, ma proprio per questo lo carica di una maggiore responsabilità narrativa, in grado di dischiudere il significato più profondo del romanzo. Lo sconfinato teatro onirico di Ida ha la capacità di rappresentare le sorti dell’intera umanità, una funzione che raggiunge il suo picco nei sogni che adombrano la tragedia della Shoah: «Altro non c’era che delle scarpe ammucchiate, malridotte e polverose, che parevano smesse da anni.

E lei, là sola, andava cercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima, quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di un verdetto definitivo».

Si tratta di un sogno che segue una delle sequenze nelle quali la funzione sacrale di Ida meglio si esplica, ossia la peregrinazione, come in trance, che essa compie il 1° giugno 1944 nel Ghetto ebraico ormai deserto dopo la deportazione di massa del 16 ottobre 1943 e gli ulteriori rastrellamenti dei nazifascisti nei mesi successivi.

Ida non formula pensieri compiuti e coerenti, ma sente dentro di sé tutta l’enormità dell’esperienza, nei termini di un’«allucinazione auditiva» che le fa percepire le voci della vita quotidiana degli abitanti scomparsi, in una versione tumultuosa e sconclusionata: «Senza sapere quel che diceva, né perché, Ida si trovò a mormorare da sola, col mento che le tremava come ai bambinelli sul punto di piangere: “Sono tutti morti”».

Siamo di fronte a un fenomeno di fantasticizzazione, ossia di una connotazione perturbante, evidente nel gioco reciproco di «esotico» e «familiare», dell’ambientazione realistica di fondo. Al contempo, il fatto che, resa semicosciente dalla fatica della lotta quotidiana per la sopravvivenza sua e di Useppe, Ida sia arrivata nel Ghetto durante le sue peregrinazioni per le strade di Roma, ci conduce all’altra principale strategia di riuso del romance nella Storia: la caratterizzazione della città non solo come scenario principale delle vicende raccontate, ma proprio come cronotopo urbano che consente di sviluppare l’intreccio grazie agli incontri casuali che avvengono per le sue strade.

Ed è qui che si tocca il cuore della dimensione romanzesca della città, come è evidente sin dall’incipit, in cui vediamo Gunther «girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma», dopo esservi capitato, nella sua solitudine, «senza nessuna scelta».

Dopodiché, «fece ancora qualche passo sui marciapiedi, poi svoltò a caso e al primo portone che trovò si fermò sulla soglia» e qui si imbatte in una «donnetta d’apparenza dimessa ma civile, che in quel punto rincasava, carica di borse e di sporte», che altri non è se Ida, dando avvio a quella successione di eventi – lo stupro, la gravidanza, la nascita di Useppe – che dà avvio all’intreccio della Storia.

La casualità dell’incontro, peraltro, contribuisce a rappresentare sin da subito anche gli effetti negativi delle Potenze e Poteri del «gran mondo» sulle piccole storie periferiche della quotidianità: i due personaggi che si incontrano, anziché solidarizzare in nome della comune inermità rispetto a eventi tanto più grandi di loro, interagiscono attraverso i ruoli di carnefice e vittima assegnati dall’indifferenza irriguardosa della Storia, che non esita, nella circostanza, a metterli l’uno contro l’altra.

La vicenda si sposta poi sul nucleo familiare dei Ramundo-Mancuso, che seguiamo nei vari alloggi di Ida e Useppe, all’interno dei quali l’avventuroso Nino, prima fascista, poi partigiano, poi contrabbandiere, compie sporadicamente le sue incursioni. Anche i traslochi, come quello in via Mastro Giorgio al Testaccio, derivano da una successione casuale di eventi: Erano giorni, evidentemente, che una fortuna la assisteva.

Alla Cassa Stipendi, dove si recò, secondo il solito, a ritirare il mensile, s’incontrò stavolta con una sua collega anziana. La quale, al vederla così spersa, le propose un trasloco pronto e conveniente». Si tratta di un incontro dichiaratamente fortunato: le circostanze si ricompongono in una trama in nome della solidarietà.

Lo stesso accade in occasione dei furti che permettono a Ida di sopravvivere nel momento più duro dell’occupazione tedesca: «Fu intorno al venti maggio, di mattina presto. Era appena uscita di casa […]. A quell’ora, in istrada passava solo qualche operaio. Sbucando da una via trasversale sul lungotevere, essa scorse un camioncino fermo, davanti a un deposito di alimentari».

Approfittando della distrazione dei guardiani, Ida riesce a rubare una lattina di carne in conserva, vista – ma non denunciata – dallo scaricatore e da «due tipi di pezzenti allupati, sbucati sul lungotevere in quell’istante medesimo».

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La funzione cronotopica della città si mantiene anche nei capitoli che seguono la liberazione di Roma, solo che il movimento nello spazio urbano è adesso affidato a Useppe e alla cagna Bella, ai quali, si legge, nella «primavera-estate del ’47», l’ultima da loro vissuta, «non mancarono incontri e avventure». Innanzitutto, nei loro «vagabondaggi» scoprono, grazie all’olfatto di Bella, il locus amoenus tiberino cui si è già accennato: «una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio».

È qui che Useppe, con una naïveté francescana da F.P., riconosce «la canzonetta» degli uccelli che cinguettano «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!», e fa la conoscenza dell’evaso Scimò. Non dimentichiamo poi che, nelle loro varie peregrinazioni, Useppe e Bella si imbattono anche in personaggi che sembrano tornare fuori dal nulla, come lo stesso Davide Segre o Patrizia, una delle amanti di Nino, che presenta a Useppe quella che lui non sa essere la sua nipotina: «un altro incontro inaspettato. Evidentemente, questa era l’epoca degli incontri per loro».

Il seme dell’umanità

Il riuso del romanzesco nella Storia non è un mero accessorio finzionale, ma nutre dal suo interno il sincretismo dell’opera e il suo messaggio umanistico. Più specificamente, Morante incarica la figura di Davide, coscienza intellettuale del romanzo, di mostrare in che modo la dimensione romanzesca di Roma sia collegata alla visione della Storia che regge l’opera.

Un giorno, nel corso delle loro peregrinazioni, Useppe e Bella si recano a far visita a “Vvavide”, ma, anziché trovarlo nel suo terraneo presso ponte Sublicio, lo scovano in una vicina osteria mentre sta tenendo un discorso al quale gli avventori, impegnati ad ascoltare i risultati di calcio alla radio o a giocare a carte, prestano ben poca attenzione.

Per quanto reso loquace dalla droga, Davide riesce a svolgere un’argomentazione coerente, che riprende la “filosofia della Storia” di Morante. Storia, Potere e fascismo formano una catena destinata per sua natura a schiacciare i deboli e verso la quale l’unica rivoluzione possibile sarebbe, letteralmente, quella anarchica, che conduce al non-potere e al rispetto di tutte le creature, senza distinzione di «popolo o classi o individui» o razze.

In quest’ottica la Shoah appare quale uno degli ultimi e più orribili esempi di sopraffazione umana, come Davide ben sa: «si aggrottò, stringendo le mascelle; e all’improvviso, levandosi in piedi, gridò in aria di sfida: “Io sono ebreo!”».

Egli si sente in colpa per aver rivelato un fatto così personale, ma poco dopo trova il modo per legare la sua vicenda a una più ampia interpretazione della Storia: «“[…] il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio… Si nasce ebrei per caso, e negri e bianchi per caso…” […] “ma non si nasce creature umane per caso!” annunciò, con un sorrisetto ispirato, quasi di gratitudine».

È questo, in realtà, «l’esordio di una poesia, composta da lui stesso parecchi anni prima, sotto il titolo La coscienza totale», la cui parola chiave è evidentemente “caso”. Il «movimento multiplo e continuo della natura» si contrappone alla fissità del «sistema sociale di decrepitudine preistorica» della Storia, così come la Causalità aberrante di quest’ultima, dovuta alle trame delle Potenze e dei Poteri, si contrappone alla casualità festosa della «creatura umana».

La dignità degli esseri umani, cioè, è di per sé così significativa e dotata di senso – «non si nasce creature umane per caso!» – che può ignorare quelle circostanze che la Storia invece considera demarcanti: l’essere nato, appunto, ebreo o nero, anzi “negro”, o bianco… Si può allora supporre che tra l’insistenza sul caso da parte di Davide – e, con lui, dell’autrice – e il motivo romanzesco dell’incontro casuale ci sia una qualche corrispondenza, non solo tematica, ma anche strutturale.

L’opposizione tra la Storia, che trasforma il caso della nascita nella Causalità violenta del fascismo, e la «volontà universale» che weilianamente afferma, al di là delle contingenze della nascita, il valore della persona, sarebbe compresa anch’essa nella dicotomia del titolo La Storia. Romanzo: perché il piccolo mondo del romanzo può narrativamente redimere le aberrazioni del «gran mondo» della Storia.

Gli incontri che in continuazione avvengono nello spazio cittadino sono frutto indiretto della sofferenza determinata dalla Storia, che spinge i personaggi, se non vogliono soccombere, verso peripezie definibili come avventure della sopravvivenza.

D’altra parte, però, tali incontri sono anche il modo in cui la dignità delle persone si ricompone a dispetto della Storia: i personaggi, con il loro semplice entrare in reciproco contatto, finiscono per costruire trame molteplici rispetto al plot univoco imposto dai Poteri e dalle Potenze superiori, dando vita a un movimento polifonico di storie personali e collettive che è, per usare le parole di Davide Segre, anch’esso «multiplo e continuo», alternativo e caotico, ma non per questo immotivato o senza senso, rispetto alla mostruosa linearità della Storia.

Questo è tanto più evidente quando i personaggi simpatizzano tra di loro e si offrono solidarietà e aiuto, come si nota dalla stessa vicenda di Ida, che sopravvive nella Roma occupata grazie agli episodi di generosità di conoscenti e sconosciuti; tuttavia, a ben vedere, anche gli incontri da cui scaturiscono episodi violenti e tragici possono contribuire a intessere una progressione narrativa centrifuga rispetto al corso della Storia, primo fra tutti lo stupro di Gunther, “perdonato” dalla procreazione di Useppe.

A questo residuo di umanità sembra alludere la finale citazione gramsciana. La circostanza che «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno», che non si sa come evolverà, «ma probabilmente è un fiore e non un’erbaccia» non casualmente richiama, con ricorrenza autointertestuale, la definizione poetica degli F.P. nel Mondo salvato dai ragazzini: «accidenti fatali dei Moti Perpetui / semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal capriccio dei venti, / e germogliano in ogni terreno».

Ciò non significa che la plurivocità delle storie dei personaggi sia in grado di fermare la Storia, la cui violenza vince sempre, inesorabilmente, e infatti i protagonisti, a uno a uno, soccombono all’«infezione dell’irrealtà», come ancora si legge nella Nota introduttiva all’edizione del 1971 del Mondo.

Piuttosto, similmente all’utopia poetica delle Canzoni popolari, il romanzo offre una redenzione della Storia non più che squisitamente narrativa, affidata alle risorse dell’affabulazione romanzesca, ma in questo consiste del resto «la funzione dei poeti, […] oggi più che mai difficile (fino all’impossibile) eppure più che mai urgente e necessaria»: nello scrivere per «aprire la propria e l’altrui coscienza alla realtà» rispondendo a una «disperata domanda, anche inconscia, degli altri viventi».

(Estratto adattato da: Elena Porciani, Elsa Morante, la vita nella scrittura, Carocci editore, Roma, in uscita nelle librerie il 26 ottobre 2024).

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