Anche quest’anno i dati (incompleti) sull’aborto in Italia sono in ritardo (pagellapolitica.it)

di Micol Maccario

Nel nostro Paese è ancora difficile sapere com’è applicata la legge 194 del 1978 su tutto il territorio nazionale a causa della carenza di informazioni

Il 28 settembre si celebra la Giornata internazionale dell’aborto sicuro e da quasi sette mesi il governo è in ritardo nella pubblicazione della relazione annuale che contiene i dati più aggiornati sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) in Italia.

La legge stabilisce che «entro il mese di febbraio» di ogni anno il Ministero della Salute deve presentare al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge n. 194 del 1978, che contiene le «norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza».

Al momento della pubblicazione di questo articolo la relazione non è ancora stata pubblicata e a questo ritardo, che riguarda anche i governi passati, si aggiunge un altro problema: i dati pubblicati gli scorsi anni sono lacunosi e imprecisi, e non permettono di avere un quadro chiaro ospedale per ospedale. Di conseguenza è ancora difficile sapere se effettivamente la legge 194 è applicata in tutti i suoi punti in tutto il Paese, ed è complicato per le persone che vogliono ricorrere all’Ivg avere informazioni su quali sono le strutture che la praticano.

Che cosa prevede la legge 194

I 22 articoli che compongono la legge 194 stabiliscono modi, tempi e luoghi in cui si può ricorrere all’Ivg in Italia. Secondo questa legge, l’aborto è possibile «entro i 90 giorni» di gestazione per motivi di salute (fisica o psichica), condizioni economiche, sociali o familiari, per previsioni di anomalie o malformazioni del concepito o per le circostanze in cui è avvenuto il concepimento. Dopo i 90 giorni l’Ivg è consentita solo nei casi in cui «la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna».

La procedura per ricorrere all’Ivg prevede che, prima di presentarsi in una delle sedi autorizzate a praticare l’aborto, sia necessario rivolgersi a un medico che alla fine dell’incontro rilascia la copia di un documento che attesta lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta. A quel punto la donna deve aspettare sette giorni prima di poter accedere all’Ivg. Solo nel caso in cui la situazione richieda di intervenire urgentemente allora il certificato per abortire viene rilasciato subito.

Farmacologico o chirurgico

In Italia è possibile sottoporsi a due tipi di aborto: chirurgico o farmacologico. Il metodo chirurgico è usato generalmente a partire dalla quattordicesima o quindicesima settimana di gestazione; consiste nell’aspirazione del contenuto della cavità uterina e può essere eseguito in anestesia locale o generale. In passato si usava la tecnica del raschiamento dell’utero, che oggi però è quasi del tutto abbandonata perché più rischiosa.

Il metodo farmacologico, invece, prevede l’assunzione a 48 ore di distanza l’uno dall’altro di mifepristone, conosciuto con il nome di RU486, e di prostaglandina. Come spiega il Ministero della Salute, il mifepristone «causa la cessazione della vitalità dell’embrione», mentre l’assunzione del secondo farmaco «ne determina l’espulsione».

È possibile ricorrere al metodo farmacologico sotto richiesta della persona interessata entro nove settimane di età gestazionale presso le strutture ambulatoriali pubbliche collegate a ospedali, i consultori o in day hospital.

Queste indicazioni sono in vigore dal 2020, quando l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha modificato le linee guida sull’impiego del medicinale. Le prime linee guida risalivano al 2009, anno di approvazione del farmaco in Italia. Prima del 2020 l’assunzione doveva avvenire entro sette settimane di età gestazionale, ed era previsto il ricovero dal momento di «assunzione del primo farmaco all’espulsione del prodotto del concepimento».

Negli anni il ricorso all’aborto farmacologico è aumentato, passando da essere usato nel 3,3 per cento degli interventi nel 2010 al 45,3 per cento nel 2021. In quell’anno, ha sottolineato il Ministero della Salute nella relazione pubblicata l’anno scorso, «per la prima volta in assoluto, le Ivg farmacologiche presentano una frequenza quasi pari a quelle chirurgiche effettuate con isterosuzione o raschiamento (50,7 per cento) a livello nazionale». L’aborto farmacologico è indicato come sicuro dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), secondo cui con il «sostegno di operatori sanitari» può essere autogestito dalle donne a casa propria. In Italia, però, l’accesso all’aborto farmacologico non è ancora praticato ovunque. Nelle Marche, per esempio, è stato utilizzato nel 19,6 per cento dei casi nel 2021, mentre in Liguria la percentuale sale al 72,5 per cento.

L’obiezione di coscienza

La legge 194 prevede la possibilità per gli operatori sanitari di fare obiezione di coscienza, ossia di decidere di non effettuare interventi che sono in contrasto con i propri valori e principi, tranne nei casi in cui possa essere compromessa la vita della paziente. In altre parole, un ginecologo che ritiene l’aborto non in linea con il suo pensiero può non effettuare l’intervento, delegandolo a un altro dottore, tranne nel caso in cui la persona che vuole abortire rischi di morire.

Non può esserci però l’obiezione di struttura: questo significa che la possibilità di abortire deve comunque essere garantita all’interno di un ospedale. Come stabilisce l’articolo 9 della legge 194, «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare […] l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti». Alle singole regioni spetta il compito di controllare e garantire che il servizio sia assicurato «anche attraverso la mobilità del personale».

Per quanto riguarda il numero di obiettori di coscienza, secondo i dati della relazione sull’attuazione della legge 194 pubblicata lo scorso anno, nel 2021 la percentuale media nazionale sfiorava il 63,5 per cento tra i ginecologi, il 33 per cento tra il personale non medico e il 40,5 per cento tra gli anestesisti. La percentuale però non è uguale in tutte le regioni italiane. La zona in cui ci sono più ginecologi obiettori è l’Italia meridionale (78,5 per cento), seguita dall’Italia insulare (76,5 per cento), centrale (63 per cento) e poi settentrionale (54,7 per cento). In particolare, la regione con il maggior numero di ginecologi obiettori è la Sicilia (85 per cento), seguita dall’Abruzzo (84 per cento) e dalla Puglia (80,6 per cento), mentre le zone con le percentuali più basse sono la provincia autonoma di Trento (17,1 per cento), la Valle d’Aosta (25 per cento) e l’Emilia-Romagna (45 per cento).

La percentuale più alta di anestesisti obiettori si trova nelle isole (65,4 per cento), seguite dal Sud (54,4 per cento), dal Centro (38,8 per cento) e dal Nord (32,4 per cento). Infine, i numeri più alti di personale non medico obiettore si registrano nel Sud (65,7 per cento), seguito dalle Isole (59,3 per cento), dal Nord (27,2 per cento) e dal Centro (23,6 per cento).
Una curva che scende
Secondo i dati della relazione del Ministero della Salute, nel 2021 in Italia ci sono state 63.653 interruzioni volontarie di gravidanza, con un tasso di abortività, ossia il numero di aborti ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni, pari a 5,3.

Tre anni fa c’è stata una diminuzione del 72,9 per cento degli aborti rispetto al 1982, anno in cui erano stati circa 234 mila, il numero più alto mai raggiunto da quando sono disponibili dati sul fenomeno.

Nel 2021 il tasso di abortività è diminuito in tutte le classi di età rispetto all’anno precedente, esclusa la fascia sotto i vent’anni, che ha registrato un lieve incremento, passando dal 3 per cento del 2020 al 3,1 per cento del 2021.

La relazione e i dati che mancano

Come detto, la legge 194 prevede che entro febbraio di ogni anno sia diffusa la relazione del Ministero della Salute sull’attuazione dell’Ivg in Italia. Quest’anno la scadenza non è stata rispettata e la relazione non è ancora stata pubblicata. Il ritardo, comunque, non è una novità: l’anno scorso la relazione è stata pubblicata a metà settembre, nel 2022 a giugno, nel 2021 a fine luglio, nel 2020 ad agosto. Per trovare documenti pubblicati secondo i tempi stabiliti dalla legge bisogna andare indietro al periodo pre-pandemico. Ma la causa del ritardo non è da imputare alla pandemia, perché, per esempio, anche la relazione del 2017 è stata diffusa con un ritardo di dieci mesi.

Ma che cosa contiene la relazione? Secondo l’articolo 16 della legge 194, dovrebbe riguardare «l’attuazione della legge stessa» e «i suoi effetti». Nella relazione sono presenti vari aspetti: dall’andamento del fenomeno alle caratteristiche delle persone che ricorrono all’Ivg. «Il problema è il modo con cui questi dati sono resi accessibili.

Al fondo della relazione ci sono tabelle con dati, ma hanno tutte lo stesso problema: sono dati chiusi e aggregati per medie regionali. Il risultato è una fotografia sfocata della situazione, è poco utile sia per chi vuole fare una ricerca sull’applicazione della legge 194, sia per chi vuole informazioni su come e dove abortire», ha spiegato a Pagella Politica Chiara Lalli, giornalista e co-autrice con la collega Sonia Montegiove del libro Mai Dati (Fandango, 2022).

Una persona che intende ricorrere all’Ivg ha bisogno di avere informazioni disaggregate per struttura per sapere, per esempio, dove è elevato il tasso di obiettori di coscienza o dove si pratica l’aborto chirurgico e dove quello farmacologico. Non esiste però un elenco ministeriale diviso per strutture ospedaliere che indichi se in quei luoghi si pratica o meno l’Ivg e i dati sono disponibili soltanto divisi per regione. A questo fattore si aggiunge il ritardo con cui i dati sono pubblicati, dato che nella relazione le informazioni si riferiscono sempre a due anni prima, quindi non sono più attuali.

In alcuni casi i dati proprio non sono pubblici. La legge 194 stabilisce che dovrebbero essere assicurati spostamenti del personale medico non obiettore tra le varie strutture per garantire l’accesso all’aborto ovunque, ma nell’ultima relazione del Ministero della Salute si legge soltanto che «alcune strutture hanno dichiarato di aver effettuato Ivg pur non avendo in organico ginecologi non obiettori, dimostrando la capacità organizzativa regionale di assicurare il servizio attraverso una mobilità del personale non obiettore presente in altre strutture».

E anche i dati che sono disponibili devono essere letti con attenzione. «Per esempio, i numeri su obiettori e non obiettori presenti nella relazione sono falsati: ci sono non obiettori che non praticano aborti perché si occupano di altro o perché lavorano in un ospedale in cui non c’è un punto Ivg», ha aggiunto Lalli. In Mai Dati Lalli e Montegiove presentano la loro inchiesta sui dati che mancano per capire se la legge 194 è effettivamente applicata ovunque in Italia. In merito ai dati falsati sugli obiettori di coscienza, le autrici spiegano che il numero di “non obiettori” e “non obiettori che praticano aborti” in molti casi non coincide.

Per esempio, come si legge nel libro, all’ospedale Sant’Eugenio di Roma nel 2022 c’erano 21 ginecologi, di cui 10 non obiettori ma di questi solo 2 praticavano aborti. All’ospedale San Paolo di Civitavecchia c’erano invece 13 medici, di cui quattro non obiettori ma solo uno era non obiettore ed effettuava aborti. «Non basta sapere quanti sono i non obiettori per capire lo stato di applicazione della 194, dobbiamo sapere quanti medici eseguono davvero le interruzioni volontarie di gravidanza. La garanzia dell’Ivg dipende molto anche da come sono organizzati gli ospedali e i reparti, non solo dal numero di obiettori», scrivono Lalli e Montegiove.

«È difficile trovare le informazioni e spesso le persone non sanno a chi rivolgersi o cosa fare. Per questo abbiamo scritto insieme ad altre associazioni la Guida pratica al tuo aborto libero e informato (disponibile qui, ndr). Come associazione abbiamo anche una chat Telegram in cui cerchiamo di dare indicazioni a chi ha bisogno», ha raccontato a Pagella Politica Roberta Lazzeri, attivista dell’associazione Pro-choice, un’associazione che si batte per il diritto all’aborto. A fronte di informazioni istituzionali difficili da reperire, negli anni sono nate diverse associazioni che si occupano di divulgazione o fanno una raccolta dati dal basso, come Obiezione RespintaIvg e sto benissimoLaiga 194 e pure l’associazione Luca Coscioni, quest’ultima impegnata anche su altri temi legati ai diritti civili.

La relazione del Ministro della Giustizia

L’articolo 16 della legge 194 prevede anche la pubblicazione di una seconda relazione, quella del Ministro della Giustizia. In questo caso si tratta di una relazione sulle «questioni di specifica competenza del suo Dicastero», ossia i procedimenti giudiziari che riguardano le violazioni della legge 194 e le richieste rivolte al giudice tutelare da parte di donne minorenni, che quindi hanno bisogno dell’assenso dei genitori o tutori per ricorrere all’Ivg, o di donne maggiorenni che si trovano in una situazione di infermità mentale, e a cui quindi serve la conferma del tutore per abortire.

I dati più recenti, riferiti al 2023, sono stati trasmessi al Parlamento dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio il 4 aprile 2024 e mostrano che i procedimenti in atto al 31 dicembre 2023 erano 223 con 332 persone coinvolte. Si tratta di persone che hanno violato le prescrizioni della legge 194, per esempio provocando l’Ivg senza il consenso della donna o divulgando l’identità della persona che ha deciso di abortire.

Per quanto riguarda le donne minorenni, per ricorrere all’Ivg devono ricevere l’assenso dei genitori o dei tutori. Quando questo assenso manca, possono rivolgersi al giudice tutelare. Secondo la relazione del Ministro della Giustizia, il numero delle richieste al giudice tutelare negli anni è rimasto stabile fino al 2007, con una media annua di circa 1.300 richieste, poi è calato fino al 2020 (anno in cui c’erano state 301 domande) ed è nuovamente cresciuto tra il 2021 e il 2023 con rispettivamente 348, 394 e 415 domande. Le richieste delle donne maggiorenni con infermità mentale, invece, non sono state conteggiate perché il numero negli anni è diventato molto esiguo.

Dati aperti

Ricapitolando: da 46 anni l’Italia ha una legge che disciplina l’accesso all’aborto, ma a causa di dati pubblicati in ritardo, non disaggregati per struttura e in alcuni casi imprecisi, è difficile per le persone avere informazioni sui servizi, oltre che stabilire se questa legge sia davvero applicata.

Per questo motivo, a ottobre 2021 Lalli e Montegiove, insieme all’associazione Luca Coscioni, seguite a dicembre dello stesso anno dalla campagna “Dati bene comune”, hanno chiesto al Ministero della Salute l’apertura dei dati sulla legge 194. «Abbiamo chiesto dati aperti, pubblici, aggiornati e per singola struttura. Questi dati non dovrebbero riguardare ovviamente solo l’obiezione di coscienza, ma tutte le informazioni già presenti nella Relazione ministeriale, come l’aborto medico (RU486) e l’aborto dopo il primo trimestre. Abbiamo chiesto di sapere quanti non obiettori effettuano le interruzioni di gravidanza, qual è il numero medio settimanale di interventi per non obiettore e se ogni struttura in cui non c’è il servizio assicura alle donne il percorso Ivg e come», hanno raccontato Lalli e Montegiove in Mai dati.

Al momento, i dati richiesti dall’associazione Luca Coscioni e da Dati bene comune non sono ancora pubblicamente disponibili.

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