Sono passati quindici anni da quando ho scritto il primo articolo per Monitor, un’inchiesta sulle case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per il mensile cartaceo che stampavamo all’epoca.
Incontrai un ex compagno di classe a via San Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa essere più).
Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti, persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.
Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo […] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. (salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario della strage)
Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano, il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in cui non volevo farle.
Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho scelto di essere infelice a modo mio”.
L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano. Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”. (palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)
L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura vittime di uno scambio di persona.
Forse è che al sangue uno non ci fa l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente).
Fatto sta che, da quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19 di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i poveri e i disperati.
Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi, uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue.
Quando il suo amico George lo uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.
“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)
Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi, all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni fa.
Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)
(disegno di ottoeffe)