I primi passi della comunità europea sulle ceneri delle tragedie globali (linkiesta.it)

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Mondo aperto

In “La grande incertezza” (Mondadori), Nathalie Tocci racconta l’importanza del percorso d’integrazione intrapreso dal nostro Continente a partire dal Secondo dopoguerra.

Un progetto che ha permesso di voltare pagina dopo decenni di violenze e catastrofi

La maggior parte dei cittadini italiani ed europei è nata e vissuta in un mondo aperto. L’Italia e l’Europa occidentale del dopoguerra voltarono le spalle a secoli di violenze, ingiustizie e atrocità. Si chiuse la tragica pagina della prima fase del secolo breve, «l’età della catastrofe», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, che vide due guerre mondiali, carestie, genocidi, la Grande Depressione, totalitarismi e rivoluzioni.

Avendo toccato il fondo, l’Europa si risollevò, dando vita al progetto di pace più longevo, innovativo e trasformativo mai sperimentato, per certi versi il più rivoluzionario nella storia delle relazioni internazionali. È facile dimenticarlo o darlo per scontato, ma siamo le prime generazioni di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno vissuto direttamente una guerra. La osserviamo, sempre più spesso, in televisione, alla radio e sui nostri cellulari. Ma non sappiamo realmente cosa sia.

L’integrazione europea nacque dalle ceneri di queste tragedie concatenate. Come scrisse saggiamente nelle sue memorie uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet: «L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni a queste crisi».

La previsione di Monnet si rivelò non solo acuta, ma anche sorprendentemente accurata, soprattutto negli ultimi decenni. Era innestata nel seme che diede vita alla Comunità economica europea: essere stata la soluzione che aveva permesso agli europei di voltare pagina dopo la seconda guerra mondiale, la più grande catastrofe che siamo stati capaci di infliggere a noi stessi.

Il progetto di integrazione fu certamente il frutto di idealismo, di valori e di progresso: consolidare la democrazia e rendere la guerra materialmente impossibile tra i paesi europei; un obiettivo fortemente voluto e avallato anche dagli Stati Uniti, che nel frattempo si erano legati a doppio filo all’Europa attraverso il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, il cui Trattato fondativo fu firmato nel 1949 a Washington.

Ma fu anche (e questa è la storia più scomoda, spesso ignorata dagli studiosi europei così come dalla politica di quegli anni) un modo per gestire la decolonizzazione dando vita a qualcosa di più grande dello Stato-nazione, che avrebbe permesso agli ex imperi europei di continuare a proiettare la loro «grandezza» al di là dei confini nazionali, o perlomeno a sperare di farlo.

Inizialmente si era tentata la via diretta. Lo stesso Monnet, all’epoca commissario generale per il piano di modernizzazione della Francia, propose nel 1950 una difesa europea al suo primo ministro, René Pleven, che a sua volta presentò quello che divenne noto come il Piano Pleven al Parlamento francese e successivamente alle democrazie dell’Europa occidentale. Il concetto di fondo ruotava attorno all’obiettivo strategico, anzi esistenziale, di assicurare che il riarmo tedesco venisse blindato in una cornice europea.

Il piano prevedeva, infatti, la creazione di un esercito comune di centomila uomini, costituito da battaglioni di sei paesi europei, inclusa la Germania occidentale, posti sotto il comando supremo della Nato. Integrando gli eserciti europei, questi non sarebbero stati più in grado di scendere in guerra gli uni contro gli altri. Il Piano Pleven diede vita al Trattato sulla Comunità

di difesa europea, che però, nonostante la ratifica degli altri Stati europei, si infranse sul rigetto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Il risultato fu paradossale, data la genesi francese dell’iniziativa, ma, a ben vedere, non lo era. La seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista erano finite da meno di un decennio.

Basti pensare al risentimento ancora a fior di pelle tra i paesi europei generato dalla crisi del debito sovrano per rendersi conto che la memoria e il terrore dei conflitti erano ancora troppo vivi, e la sovranità riconquistata troppo giovane per cederla proprio nell’ambito più strategico ed esistenziale di uno Stato: la difesa.

Tuttavia, i padri fondatori non demorsero, trovando una via indiretta per raggiungere lo stesso scopo. Mettendo a fattor comune le industrie del carbone e dell’acciaio, alla base dell’industria della difesa, i sei paesi fondatori diedero vita a un processo di integrazione, apparentemente «solo» economico, ma in realtà profondamente politico e strategico. Se gli Stati membri della nuova comunità avessero fuso le loro industrie dell’acciaio e del carbone, questo non avrebbe solamente generato un’interdipendenza economica fra loro, ma anche intrecciato indirettamente le rispettive industrie della difesa, alimentate da quelle stesse materie prime.

Come avevano previsto e auspicato i padri dell’Europa unita, tra cui Robert Schuman, Jean Monnet e Altiero Spinelli, all’emergere di ogni nuova sfida si rivelava una diversa sfaccettatura dell’insufficienza dello Stato-nazione a fornire risposte ottimali.

Conseguentemente, si poneva un ulteriore mattoncino della casa comune europea, aggiungendo e talvolta trasferendo competenze (nel senso sia giuridico sia professionale del termine) al livello sovranazionale europeo. Così nel corso dei decenni si è andata costruendo una Comunità e poi un’Unione europea (Ue), con le sue istituzioni, i suoi processi decisionali e democratici, e il suo mercato unico, in cui vennero sancite le quattro libertà di movimento dei beni, dei servizi, del capitale e delle persone.

Fiore all’occhiello dell’integrazione economica europea fu la moneta unica – l’euro –, introdotta formalmente nel 1999 dopo un decennio di preparativi, e utilizzata come contante tra un gruppo leggermente più ristretto di Stati membri – noto come Eurogruppo – dal 2002.

Negli anni dell’Europa aperta fu creata anche l’area Schengen, con l’abolizione delle frontiere interne tra gli Stati europei e la creazione di una frontiera esterna comune. Importante ricordare, però, che all’inizio l’apertura dei confini interni non fu accompagnata dal tentativo parallelo di chiudere la frontiera esterna, certamente non della sua securitizzazione avvenuta successivamente.

Negli anni Ottanta quando fu firmato il Trattato Schengen, e nei Novanta quando venne attuato e si ampliò l’area Schengen in concomitanza con l’allargamento Ue ai paesi scandinavi, vigeva infatti un equilibrio sostanzialmente precario ma apparentemente stabile ai nostri confini esterni.

Nell’Europa meridionale, fatta eccezione per l’Italia, che già iniziava a zoppicare dalla metà degli anni Novanta, le economie erano in forte miglioramento. Soprattutto la Spagna, ma anche le più piccole Grecia e Portogallo, voltata la pagina della dittatura e abbracciata la democrazia, vissero anni di crescita economica e quindi di capacità di assorbimento socio-politico dei flussi moderati di immigrazione dal Nord Africa.

Sull’altra sponda del Mediterraneo apparivano invece stabili le autocrazie, da Hosni Mubarak in Egitto a Muammar Gheddafi in Libia e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Era una stabilità solo apparente, che non faceva perno su una forte legittimazione interna, bensì sul controllo esercitato da quei dittatori sui propri cittadini e su una loro legittimazione esterna assicurata proprio dai rapporti cooperativi con i paesi europei. Il do ut des risiedeva in una cooperazione tra i regimi nordafricani e il Vecchio Continente, che colmava parzialmente la mancanza di legittimità interna dei primi.

Tratto da “La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale” (Mondadori), di Nathalie Tocci, pp. 192, 18.00 €

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