di Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin
La popolazione immigrata rappresenta una componente vitale per il nostro paese, con un’età media molto più bassa e un tasso di natalità molto più alto rispetto agli italiani.
A regolare gli ingressi per lavoro è però un meccanismo ormai superato.
La demografia conta
Dopo la pandemia di Covid-19, in Italia si è fatto sempre più pressante il tema della richiesta di manodopera da parte delle imprese di molti settori economici come turismo, manifattura, logistica e agricoltura.
In questo fenomeno convergono diversi fattori, primo fra tutti quello demografico. Secondo le proiezioni Eurostat, la popolazione con almeno 65 anni in Italia passerà dal 24 per cento del 2023 al 33,6 per cento del 2070, con un aumento del 26,5 per cento in termini assoluti. Parallelamente, la popolazione in età lavorativa diminuirà del -21,1 per cento, scendendo dal 63,5 al 55,5 per cento del totale. La dinamica avrà inevitabilmente ripercussioni sul sistema economico, produttivo e fiscale.
Come si legge nel Rapporto Inps 2024, “In un sistema finanziario di gestione a ripartizione pura, la garanzia della sostenibilità del sistema pensionistico va ricercata nell’allargamento della base contributiva, dovuto all’incremento del numero dei contribuenti e dell’importo medio della loro retribuzione”. In altri termini, secondo l’Inps è necessario aumentare il numero di contribuenti (e quindi il rapporto lavoratori/pensionati) e dare stabilità alle retribuzioni, incrementando l’importo medio.
Il ruolo della popolazione immigrata
In questo processo, è importante considerare il ruolo della popolazione immigrata, sempre più rilevante nel nostro paese. Il XIV rapporto annuale della Fondazione Leone Moressa, che verrà presentato il prossimo 16 ottobre al Viminale, fotografa il contributo della popolazione immigrata al sistema economico italiano.
Dal punto di vista demografico, la popolazione immigrata rappresenta oggi una componente vitale in Italia, con un’età media molto più bassa rispetto alla componente autoctona (35,7 anni contro 46,9) e un tasso di natalità molto più alto (10,4 nati per mille abitanti tra gli stranieri, 6,3 tra gli italiani). Oltre al saldo naturale (differenza tra nascite e decessi), anche il saldo migratorio (arrivi – partenze) è positivo per gli stranieri e negativo per gli italiani.
Nel mercato del lavoro italiano, si continua a registrare una forte segmentazione tra la componente autoctona e quella immigrata, con quest’ultima concentrata prevalentemente nelle professioni di bassa qualifica. Se da un lato ciò garantisce una “complementarità” al sistema, limitando la competizione tra italiani e immigrati, dall’altro lato rappresenta un freno alla piena valorizzazione del capitale umano e sociale della forza lavoro immigrata.
Nonostante la bassa produttività media, i 2,37 milioni di occupati stranieri offrono un contributo al Pil pari a 164,2 miliardi di euro, 8,8 per cento del totale, con punte superiori al 15 per cento in agricoltura ed edilizia.
A livello fiscale, nonostante il differenziale di reddito medio rispetto agli italiani (-8 mila euro pro-capite) i contribuenti immigrati offrono un saldo positivo tra benefici (tasse pagate e contributi versati) e costi (servizi di welfare e pensionistici). Infatti, essendo prevalentemente concentrati in età lavorativa, gli immigrati hanno un basso impatto sulle voci di spesa pubblica più rilevanti, come sanità e pensioni. Per l’anno d’imposta 2022, il saldo è calcolato per +1,2 miliardi di euro.
Gli ingressi in Italia
La politica migratoria italiana è regolata essenzialmente dalla legge Turco-Napolitano (legge 40/1998) e dalla Bossi-Fini (legge 189/2002) e prevede che la domanda di ingresso sia fatta dal datore di lavoro: pertanto, si basa sul presupposto che l’ingresso per lavoro sia possibile solo per chi ha già un accordo di assunzione in Italia.
In questo quadro, il decreto flussi triennale 2023-2025 aveva previsto l’ingresso di 452 mila lavoratori non comunitari in tre anni, più di quelli previsti complessivamente negli ultimi dieci anni.
Tuttavia, il meccanismo continua a presentare notevoli criticità, come denunciato dalla stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel giugno scorso. Secondo i dati del Viminale elaborati dalla campagna Ero Straniero, ad esempio, nel 2023 meno di un quarto delle persone che hanno ottenuto il visto d’ingresso a seguito della richiesta del datore di lavoro sono state poi effettivamente assunte da quello stesso datore.
Questo dipende dal fatto che, dal momento della domanda a quello del nulla osta passano diversi mesi, e al momento dell’ingresso è possibile che l’azienda abbia chiuso o non abbia più bisogno del lavoratore. Il risultato, evidentemente, è che il potenziale lavoratore entra in Italia, ma poi non viene assunto, rimanendo sul territorio irregolarmente.
Oggi, tra i nuovi permessi di soggiorno rilasciati ogni anno, l’Italia registra la percentuale di permessi per lavoro più bassa d’Europa, sia rispetto ai permessi totali (9,8 per cento per l’Italia, contro una media Ue del 34 per cento) che rispetto alla popolazione residente (6,5 ogni 10 mila abitanti per l’Italia, 28,1 media Ue). Rispetto ad altri stati europei, infatti, il nostro paese ha una quota molto maggiore di ingressi per ricongiungimento familiare e per asilo, legati ovviamente alle migrazioni per lavoro dei decenni passati.
Il decreto “Immigrazione”, approvato il 2 ottobre, ha apportato alcuni correttivi che dovrebbero snellire le procedure, anche grazie al raccordo tra diverse banche dati, e aumentare i controlli nei confronti di imprese e lavoratori.
Il tempo dirà se i correttivi saranno sufficienti ad aumentare gli ingressi per lavoro. Certamente, il meccanismo attuale non risponde più (se mai lo ha fatto) alle esigenze del sistema produttivo: secondo l’indagine Unioncamere Excelsior, nel quinquennio 2024-2028 il fabbisogno delle imprese (esclusa la pubblica amministrazione) sarà di 3 milioni di lavoratori, di cui circa 640 mila immigrati.
Numeri significativi, che richiedono strumenti normativi e procedure amministrative adeguati ed efficienti.