di Goffredo Buccini
Il comandante dell’arma
«Gli stranieri nati in Italia sono italiani».
Alla guida dei carabinieri da metà gennaio 2021, Teo Luzi lascia, a novembre, con la stessa attenzione al sociale che l’ha distinto in quasi quattro anni da comandante generale dell’Arma. «La legge del ’92 — spiega — è obsoleta».
Una legge sulla cittadinanza «non più aderente al cambiamento che c’è stato» e, dunque, da ripensare ex novo nel senso dell’integrazione. Periferie dove non basta la risposta securitaria, «perché servono scuole, decoro urbano, qualità di vita dei quartieri». Un Paese stressato da Covid e guerre, «due macigni».
Arrivato alla guida dei carabinieri a metà gennaio 2021, Teo Luzi è prossimo al passo d’addio (andrà via a novembre). E lascia con la stessa attenzione al sociale che l’ha accompagnato in quasi quattro anni da comandante generale dell’Arma.
Com’è l’Italia oggi?
«Dovessi indicarle il sentimento prevalente tra i nostri compatrioti, direi: la preoccupazione. Che sfocia in tensioni, litigiosità… nei condomini, tra i banchi, sul lavoro. Nelle nostre sale operative si riversano episodi talvolta inspiegabili».
Parlando l’altro giorno ai suoi cadetti dell’Accademia di Modena ha proposto loro un antidoto: l’altruismo. Parola desueta.
«Questo è un mondo sempre più egoista, è vero. Ma ai ragazzi ho parlato di assistenza reciproca, anche nelle piccole difficoltà quotidiane. La capacità di ascolto dei carabinieri è una forma di altruismo».
Ed è uno strumento di lavoro per non perdere di vista uno snodo decisivo della nostra convivenza democratica: le periferie. I problemi di sistema in Germania e Francia lo dimostrano. È così anche per l’Italia?
«Assolutamente sì. Le periferie sono un vulnus nell’equilibrio sociale delle democrazie occidentali, bisogna garantire a chi ci vive la stessa qualità di vita di chi abita altrove. Sono aree che in Italia richiedono molta attenzione. Ma in Francia ne richiedono ancor di più: da noi non esistono banlieue dove le forze di polizia non possono entrare. Tanto è stato fatto. Ma molto ancora c’è da fare per rimuovere ostacoli che danno l’idea di vivere in serie B».
Quali ostacoli ad esempio?
«Penso alla qualità dell’istruzione. Alle strutture sportive. Alle strade e alle piazze. Penso a Caivano…».
Ci sarei arrivato. Sia sincero: è tutta realtà o anche spot?
«Sono stati fatti passi importanti, a 360 gradi. E non è solo un problema di polizia ma di socialità complessiva. L’Arma si è impegnata prima che arrivasse l’attenzione mediatica su Caivano. La Compagnia lì è nata nel 2021, voluta dall’allora ministro Lamorgese. Si è lavorato sulle scuole, anche in sinergia con noi. Non è un’isola felice, certo. Ma la qualità di vita è assimilabile al resto del territorio nazionale. E il modello Caivano va esportato in altre aree».
Quali sono quelle che vi preoccupano di più e su cui state intervenendo?
«A mente, Palermo, lo Zen: dove siamo riusciti a far accettare la stazione dei carabinieri nel quartiere, cosa non banale. I nostri lì fanno attività sociale: un tempo io allo Zen non potevo entrare. Bari, San Paolo. Librino a Catania. A Nord, Genova, il quartiere di Diamante. Pilastro a Bologna. Poi Cagliari Sant’Elia. Tor Bella Monaca a Roma. Lì abbiamo lavorato molto sulle occupazioni abusive. È un tema fondamentale».
La casa contesa tra ultimi e penultimi.
«Parliamo di migliaia di case occupate abusivamente, lo Stato non mette abbastanza attenzione al tema. Dietro un’occupazione c’è chi gestisce, si alimenta la criminalità territoriale. Serve una politica più concreta».
Però ora il governo ha sterzato, si colpiscono più duramente le occupazioni.
«E io sono assolutamente d’accordo. Poi capisco che servono anche soluzioni, ma quando questa soluzione è abusiva è il peggio: alimenta il distacco della percezione pubblica rispetto allo Stato».
A Casal di Principe, terra che davamo per bonificata, ci sono state due «stese» a poche ore dalle elezioni di giugno: rischiamo di tornare indietro in territori che pensavamo recuperati allo Stato?
«Io sono un po’ più ottimista. Ora lo Stato ha il controllo. Resta latente una forma, diciamo, culturale della criminalità, le “stese” sono messaggi criminali. Non siamo però agli anni Ottanta. E comunque quando lei parla di condizionamenti, bisogna pensare anche al Nord».
È, per dirla con Sciascia, la risalita della linea della palma?
«Beh, la criminalità organizzata rispetto alla politica locale si sente, hanno sciolto Comuni per infiltrazioni mafiose anche al Nord. Lì lavorano con un profilo economico-politico».
E allora da dove viene l’ottimismo?
«Abbiamo un quadro normativo avanzato. Una grande sensibilità della magistratura. Pochi Paesi al mondo, oggi, possono affrontare la criminalità organizzata come possiamo fare noi. L’arma del sequestro preventivo è fondamentale».
Non è il massimo del garantismo.
«Beh, se i beni provengono dal crimine e lo si dimostra con le indagini…».
La questione migratoria e la questione sociale delle periferie quanto si sovrappongono?
«Tanto. Le tensioni nelle periferie non sono risolte. Ci sono aspetti culturali, criminalità etnica. La nostra interposizione abbassa la conflittualità che però rimane latente. E c’è un altro tema…».
Dica.
«Quello degli italiani con genitori stranieri, le seconde generazioni. È emerso specie al Nord, in maniera non virulenta come in Francia: ma è una questione su cui bisogna aprire una riflessione».
Cioè?
«Bisogna favorire quanto più possibile l’integrazione. Sono italiani».
Favorirla con la cittadinanza?
«Sono italiani. Nelle periferie l’integrazione deve essere la regola. Non la fanno le forze di polizia. Si fa con la scuola, l’avviamento al lavoro».
Semplificando: se sono nato in Italia, faccio un certo numero di anni di scuola, devo averla o no la cittadinanza?
«Tutti i maggiori Paesi in Europa hanno un meccanismo di integrazione e anche l’Italia deve averlo. Quale sia, lo decida la politica. Ma il meccanismo di integrazione, con equilibrio politico, va trovato: si guardi alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra».
Ma qui non c’è.
«Non c’è la legge. Ci vuole una legge. Tocca al Parlamento sovrano».
Per dirla chiara: la legge che oggi c’è, quella del 1992, è obsoleta?
«Non rispecchia più il cambiamento che c’è stato. Poi come debba essere la nuova, per tutelare la cultura italiana, tocca alla politica dirlo. La contrapposizione non porta da nessuna parte. Io personalmente sono molto aperto: occorre una normativa più moderna».
Quest’Italia è travagliata anche da gravi rigurgiti di antisemitismo. È una questione di sicurezza nazionale?
«Lo è. Si batte su un piano culturale. E non lasciando sole le comunità ebraiche. Un nostro generale, Angelosanto, è commissario del governo contro questo fenomeno».
I nostri anziani sono l’anello più debole della società.
«Sì, sono molto più vulnerabili, più soli. E quindi sono il bersaglio dei truffatori. Per l’anziano essere truffato è un trauma vero, dà un senso di vergogna, di fine. Così abbiamo messo su col Viminale una campagna d’informazione. Alla messa domenicale, nelle scuole per arrivare ai nonni, sui media. Anche Lino Banfi ci ha aiutato. Lui è per tutti il nonno d’Italia».