Con Pertini a Pechino, fra folle festanti e agguati per sabotarlo. Un aneddoto (finora) riservato (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Il presidente partigiano scalda i cuori dei giovani cinesi, mentre una ressa di giornalisti cerca di provocarlo per metterlo in cattiva luce e puntare alle dimissioni. Un pericolo scampato per poco, attraverso un punto di vista inedito, raccontato da chi c’era

Caro Giuseppe De Rita, mi ha rallegrato la sua rivendicata appartenenza a un’oligarchia del bene pubblico nell’intervista a Fubini per il Corriere. Lei vi ha ricordato di essere stato molto amico di Antonio Maccanico, “uno degli oligarchi più riconosciuti”, che “come segretario generale, con la sua cucitura orizzontale, è stato determinante per il Quirinale di Pertini”.

Così le racconto un antico episodio che ho tenuto per me: lei saprà capirne più di quanto non ne capissi io allora. Cioè nel 1980, al tempo del viaggio ufficiale del presidente Pertini in Cina, il primo, il più lungo e delicato.

Avevo fatto amicizia con Sandro Pertini nel 1977, quando presiedeva la Camera, e gli chiesi di venire a commemorare Walter Rossi, un nostro compagno di vent’anni ucciso da fascisti a Roma mentre distribuiva un volantino. Pertini ringraziò dell’invito, chiese di rifletterci, all’indomani si disse dispiaciuto di non tenere l’orazione, però sarebbe venuto al funerale. Da allora avemmo un rapporto frequente e cordiale.

Dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica venni accolto nei viaggi presidenziali, gratis, da imbucato, in considerazione della povertà di Lotta Continua e grazie alla gentilezza del portavoce Bruno Agrò e del fotografo del Quirinale Marcello Picchi. Andai in Jugoslavia due volte, per la visita ufficiale e poi, nel maggio 1980, per il funerale di Tito.

Nel settembre fu la volta del viaggio in Cina. Pertini aveva 84 anni. Lo accompagnava Emilio Colombo, allora ministro degli Esteri. Nel seguito egregio di giornalisti spiccava per solitudine altera (con la compagnia di sua sorella Paola) Oriana Fallaci, che aveva appena messo a segno l’intervista celebre a Deng Xiaoping.

Fummo tutti introdotti graziosamente da Deng. L’incontro fra Pertini e Deng fu epico: “Un combattente saluta un altro combattente”, ”un compagno partigiano saluta un altro compagno partigiano”.

Avevo il privilegio di un rapporto molto confidenziale con Pertini, e di dargli del tu, come mi aveva intimato di fare dal primo incontro: in qualche rievocazione mi si deplora l’impertinenza (così il veterano Roberto Tumbarello: “Il solo a dargli del tu era Adriano Sofri. A me dava molto fastidio, sebbene fosse uno dei colleghi che apprezzavo maggiormente per intelligenza e acume nei suoi resoconti. Neppure deputati e ministri si permettevano tanta confidenza con l’anziano presidente”).

Maccanico aveva ragioni di preoccupazione per il viaggio: c’era il fresco precedente del licenziamento dell’ottimo Antonio Ghirelli, l’annullamento di un viaggio ufficiale in Thailandia per delle frasi imprudenti del presidente, e l’allarme generale per l’imprevedibilità delle sue mosse. E la convinzione di un’inopportunità cerimoniale della partecipazione della moglie di Pertini, Carla Voltolina (nel “Diario” Maccanico avrebbe annotato: “La novità della partecipazione di Carla Pertini al viaggio ha creato seri problemi”).

Come quando si avverte un ospite di stare attento a non urtare il prezioso vaso cinese, il guaio non tardò ad avvenire. Il 20 settembre, all’università di Pechino. Pertini interruppe bruscamente una sofisticata esibizione ginnica degli studenti: al diavolo la ginnastica, sono venuto a parlare coi ragazzi, come un nonno coi nipoti.

Panico nel protocollo, interdetto fra i ragazzi, e finalmente la paternale di Pertini accolta dagli applausi dei giovani e le felicitazioni del rettore. Buona parte degli inviati italiani si mostrò più scandalizzata degli impassibili cerimonieri cinesi, e mentre Pertini andava fiero della riconfermata popolarità e della trasgressione del regolamento, si diffuse un sentimento di imbarazzo o di vero fallimento.

Cui una parte della stampa si era mostrata per così dire predisposta, dal momento che fin dallo sbarco a Pechino Pertini fece un’intemerata al corrispondente del Corriere, Piero Ostellino. Ostellino aveva pubblicato sul settimanale del Pli, l’Opinione, un reportage preventivo singolarmente irriguardoso – si portava appresso una moglie bizzosa e indisposta ai rapporti diplomatici, decisa ad andare in giro da sola e a svegliarsi all’ora che preferiva… – che fece infuriare Pertini. “Mia moglie non si tocca!”.

Gli incidenti si moltiplicavano. Sulla Tienanmen Pertini, invano inseguito, lasciò di colpo il collega presidente Hua Guofeng per andare ad abbracciare e baciare la folla di bambini, donne e giovani radunati ad agitare bandierine e applaudire: Hua si mise ad applaudire anche lui.

Nella serata ultima all’ambasciata di Pechino, conclusi gli impegni con gli ospiti, i giornalisti si intrattennero con Pertini, e si adoperarono, allegramente o malevolmente, a provocarne la famosa e ingenua vanità, sul proprio anticonformismo e il successo coi giovani.

Maccanico mi prese in disparte e mi disse accoratamente che c’era una vera cospirazione per mettere in cattiva luce Pertini, fino a mirare alle dimissioni, che questo disegno faceva capo, oltre al Corriere, a Eugenio Scalfari, e che il suo esito avrebbe dovuto essere la successione di Bruno Visentini. Mi chiese di estrarre il presidente da quella ressa, persuaderlo che si era fatto tardi e che ci aspettava un giorno impegnativo, il viaggio a Xi’an, e con l’aiuto di Picchi accompagnarlo al suo alloggio.

Ciò che mi sbrigai a fare, con la scherzosa rassegnazione di Pertini. In effetti gli eventuali cospiratori avevano sottovalutato l’imperturbabile tranquillità degli ospiti cinesi, che subissarono di elogi i modi così affabili del vecchio partigiano italiano dal cuore giovane, che aveva scaldato i cuori dei giovani cinesi, e così via.

Maccanico fu sollevato dallo scampato pericolo, e mi fu grato oltremisura. Nel suo “Diario”, pubblicato dal Mulino con la prefazione di Scalfari, i giorni tormentati del viaggio sono taciuti. Al 1° ottobre si legge: “Il viaggio in Cina è terminato con un drammatico e precipitoso rientro da Hong Kong in seguito al voto a scrutinio segreto della Camera che ha bocciato il decretone economico e ha provocato la crisi di governo mezz’ora dopo aver votato la fiducia.

Si è concluso così un viaggio che è stato di estremo interesse politico: il presidente ha avuto un grande successo personale e ha aperto la strada a intese con la Cina che potrebbero essere fruttuosissime a medio e a lungo termine. /…/ Il viaggio ha puntualmente confermato le previsioni pessimistiche sulla presenza di Carla Pertini, che con le sue stramberie ha pesato negativamente sulla missione; ma nonostante ciò, il presidente ha avuto successo, anche se la sua immagine risulta un po’ più appannata (episodio dell’Università, di Ilario Fiore e di Ostellino). Mi pare, comunque, che, in seguito a ciò, abbia capito la necessità di una maggiore prudenza”.

Il 24 novembre Maccanico nota: “Scalfari continua a chiamare in causa il presidente, il quale questa mattina mi ha detto di cercarlo per esprimergli il suo disappunto”.

Io al ritorno non mi occupai più della cosa, ero disinteressato agli intrighi di palazzo, del resto fu pubblico in quel 1980 il progetto di Visentini – antifascista precoce, azionista, repubblicano, “oligarca orizzontale” di rango, anche lui – di istituzionalizzare un governo dei tecnici, sottratto al potere dei partiti. Ci fu poi un viaggio in Grecia (Maccanico: “…trionfale, come tutti i viaggi all’estero del presidente. Ormai Pertini è un grande illusionista: fa credere agli stranieri che esista un’Italia seria e affidabile”).

Il 20 dicembre ancora Maccanico: “Le cose politiche non vanno bene. Visentini ha fatto una proposta estemporanea (governo presidenziale) che ha irritato tutti”. In anni molto successivi i miei rapporti con Scalfari si fecero cordiali, ma non lo interpellai mai su quel 1980.

Nel 2011, al momento del governo Monti, Scalfari lo evocò come un antecedente illustre, benché mancato: “Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti – compreso quello repubblicano – contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. /…/ Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent’anni l’idea-guida di Bruno Visentini che lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l’organizzazione ottimale dello stato di diritto e della democrazia parlamentare.

Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici”.
Probabilmente lei, De Rita, sa riconoscere i contorni effettivi della vicenda alla quale si riferisce il mio aneddoto.

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