di Maurizio Ambrosini
Migranti
Il governo non ha esitato a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti e questo spargerà paura tra i richiedenti asilo. Senza contare i problemi organizzativi annunciati
(Due poliziotti italiani presidiano l’ingresso del centro per migranti di Shengjin in Albania – Reuters)
Il governo Meloni ha annunciato l’imminente apertura dei due centri per il trattamento dei richiedenti asilo in Albania. Dopo vari annunci e rinvii (i centri dovevano aprire il 20 maggio) forse questa volta ci riuscirà davvero. Per raggiungere l’obiettivo, ha fatto ricorso alle procedure d’urgenza che saltano vincoli e garanzie delle normali gare d’appalto.
I centri saranno due: uno al porto di Schengjin, destinato all’identificazione e alle procedure d’ingresso, con una capienza di 200 posti. Tre milioni di euro il costo di realizzazione, più 200.000 per gli allacci nel solo 2024. L’altro, a Gjader, comprende una struttura per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), un Cpr (144 posti) e un penitenziario (20 posti).
Altri milioni di euro spesi. Ingenti i costi di gestione previsti: 800 milioni di euro da qui al 2028 (Il Sole-24 Ore), tutti a carico dell’Italia, ma con ricadute occupazionali ed economiche al di fuori del nostro paese.
Per giustificare la controversa iniziativa, il governo ha fatto ricorso a un doppio linguaggio: di fronte alle istituzioni di garanzia e nei consessi europei e internazionali, ha parlato di una soluzione volta ad accrescere la capacità d’accoglienza e di esame delle domande. Di fronte all’opinione pubblica interna e ai propri sostenitori, non ha esitato invece a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti.
Il fatto – pure sbandierato – che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da Paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto, e dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo. Non per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in Ruanda dei migranti sbarcati dal mare.
Gli interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei principi. Anzitutto, il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39.000 casi all’anno, contro 52.425 sbarcati all’11 ottobre, pur calati rispetto allo scorso anno. Ma il calcolo si basa sull’ipotesi di trattare le domande in quattro settimane, grazie a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso due.
Già si prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali, che non sfuggiranno al vaglio della magistratura. Per accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di diniego.
Quanto all’elenco dei Paesi sicuri, basti ricordare che la lista italiana è stata recentemente allargata a 22 Paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania. Casi dunque assai dubbi, “sbiancati” a priori per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non i rimpatri, molto più complicati e costosi.
Non è chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta. Data la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, non sembra né giusto né realistico pensare a un rilascio in Albania, a cui peraltro il presidente Rama si è già risolutamente opposto. Si potrebbe configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei richiedenti diniegati.
Al cospetto di un mondo in cui le crisi umanitarie si moltiplicano, la risposta è quella di una restrizione di umanità: impedimenti ai salvataggi delle Ong, quasi abolizione della protezione speciale, fondi e appoggi ai governi autoritari della sponda Sud del Mediterraneo per ingaggiarli nel contrasto dei transiti, contrazione della protezione dei minori non accompagnati. Ora anche i trasferimenti in Albania.
Può darsi che l’Ue di oggi sia più disponibile a tollerare queste misure, ma ma la mobilitazione delle coscienze, già così viva in tante iniziative di solidarietà dal basso, è chiamata a rispondere con l’affermazione e il sostegno dell’accoglienza.