Reddito di bossanza (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Dal figlio del fondatore della Lega uno può legittimamente aspettarsi di tutto, anche che scriva «Dagli Appennini alle Langhe» o che proponga un referendum abrogativo della pizza napoletana.

Di tutto, ma non che abbia percepito per quarantatré mesi il famigerato reddito di cittadinanza.

Peggio, che sia stato rinviato a giudizio con l’accusa di averlo intascato indebitamente. Confidiamo che Riccardo Bossi riesca a dimostrare la sua innocenza. E ce lo auguriamo ancor più per suo padre che per lui. Nella favolistica padana, di cui l’Umberto è stato un cantastorie inesauribile, il reddito di cittadinanza si colloca tra la bacchetta magica di lord Voldemort e la mela avvelenata della strega di Biancaneve.

Il simbolo ultimo dello Stato assistenziale, di Roma ladrona, del Sud parassita del Nord. Non c’è pregiudizio o luogo comune che non sia stato tirato in ballo per ironizzare su un sussidio di sopravvivenza che, magari con altri nomi, è presente in tutte le principali democrazie occidentali.

Lo so: certe norme, che risultano efficaci per gli svedesi o gli austriaci, funzionano un po’ meno bene nell’interpretazione creativa degli italiani.

Almeno di quelli che, quando il reddito era in vigore, lo usavano per arrotondare un lavoro in nero. Ma se — Dio Po non voglia — il processo a Riccardo Bossi dovesse concludersi con una condanna, risulterebbe evidente che tra i due popoli confinanti, padani e italiani, esistono notevoli affinità.

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