di Mario Lavia
L’assenza di una politica industriale
La manifestazione dei metalmeccanici a Roma ha avuto una partecipazione deludente. Ormai i lavoratori sono sempre più disillusi e distaccati da partiti e organizzazioni sindacali che sembrano più preoccupati della propria visibilità che di risolvere i problemi
Non siamo più negli anni Settanta. Gli operai non sono più, soggettivamente e quantitativamente, quelli di allora. Però sono ancora molti. E – va notato con preoccupazione – c’è da dire che la manifestazione unitaria dei metalmeccanici del settore automotive che si è svolta ieri a Roma è andata, a essere generosi, benino: alcune migliaia di persone.
Tolti gli apparati sindacali (quelli sì che sono ancora imponenti), e gli esponenti delle opposizioni (ah, nuovi baci e abbracci tra Elly Schlein e Giuseppe Conte), gli operai in carne e ossa in cassa integrazione o in sciopero hanno avuto difficoltà a riempire piazza del Popolo come ci si sarebbe aspettato.
A giudicare dalla indifferenza dei grandi siti d’informazione è triste constatare che ormai non si sa più bene come farsi sentire: e questo è obiettivamente un problema della democrazia. La verità è che è diventato maledettamente difficile convincere un lavoratore a rinunciare a un giorno di salario, e in più molti di quelli in cassa integrazione già si sentono fuori gioco e non vanno in piazza. Non ci credono più.
Malgrado qualche passo avanti significativo, come aver portato Carlos Tavares in Parlamento (e va dato atto a Carlo Calenda di aver sollevato con forza questa questione) né il sindacato né i partiti di sinistra stanno riuscendo a fare dell’industria automobilistica un caso in grado di coinvolgere i pezzi di società che in teoria sono sempre più marginalizzate dal processo produttivo.
Il sindacato non appare in grado di parlare al mondo del lavoro povero del terziario che dovrebbe essere naturalmente protagonista di una grande battaglia per il lavoro, ma neanche più al lavoro industriale dov’era e organizzato storicamente più forte.
L’automotive europeo è ventidue punti sotto i livelli pre covid, i motori elettrici non vendono. Ma il problema va oltre Stellantis. È che non emerge alcuna ricetta nazionale per risalire la china, come se ci si rassegnasse, in nome della modernità, ad avere in Italia un paesaggio industriale desertificato.
Dentro questo c’è poi la questione della sempre minore capacità del sindacato di rappresentare i lavoratori, che è poi lo specchio del problema dei partiti di rappresentare i cittadini: per questo siamo davanti a una gigantesca questione democratica. Lo scollamento tra i corpi intermedi e il popolo e tra i partiti, intesi ormai come oligarchie di gruppi dirigenti, ed elettori rischia di non essere più ricucito.
Le manifestazioni ormai non sono più politiche ma anti-politiche, nell’era dei no vax e del populismo, e di fronte a questo la sgradevole impressione è che i gruppi dirigenti siano soprattutto preoccupati della propria sussistenza e del loro futuro, per questo si parla di un sindacato dei sindacalisti più che dei lavoratori: è ironia perfida ma è anche una verità. Alla fine il sindacato è percepito come troppo filogovernativo o troppo di opposizione ma mai veramente autonomo.
Quanto ai partiti, il loro assillo principale pare quello della visibilità più che la ricerca delle soluzioni, nello sfarinamento totale della vita democratica al loro interno. Prima i selfie, poi i programmi. Prima o poi – è l’auspicio non sa quanto realistico – bisognerà ricominciare a fare sindacato, e a fare quello che devono fare i partiti, ritrovando l’antico rapporto con le masse.
Il presupposto per farlo, però, è prendere atto che così non va.