di Paolo Lambruschi
La vicenda dei migranti liberati dalla magistratura dai centri albanesi è un richiamo per tutta l’Europa.
Ricorda che vincerà le sfide che ha davanti – compresa, e forse soprattutto, quella dei flussi migratori – se resta sé stessa rispettando la propria storia e quindi la civiltà del diritto.
Al netto delle polemiche politiche, in attesa dell’esito dei ricorsi che presenteranno sia i 12 migranti contro il rigetto della domanda d’espulsione sia il governo verso il decreto del Tribunale di Roma che li ha liberati e riportati stamane in Italia, la giornata di ieri suggerisce alcune riflessioni.
La prima riguarda l’Italia e i partner europei, compresa la Gran Bretagna ormai esterna al perimetro dei 27 Stati dell’Unione. La magistratura italiana non è isolata: almeno due importanti decisioni dei giudici di altrettanti Paesi di primo piano hanno richiamato i propri governi al rispetto di questa civiltà giuridica.
Lo scorso febbraio il Consiglio di Stato francese, accogliendo come il tribunale di Roma il pronunciamento della Corte di Giustizia europea che aveva censurato i respingimenti forzati e collettivi in deroga a qualsiasi norma comunitaria e convenzione internazionale, ha messo dei paletti ai brutali respingimenti dei minori non accompagnati e al trattenimento notturno in stazione a Mentone delle famiglie da parte delle guardie di frontiera prima di rispedirli proprio a Ventimiglia dove ieri si è tenuto il vertice italo-francese.
Non si può dimenticare poi la sonora bocciatura dell’Alta Corte britannica alla legge del precedente governo conservatore che prevedeva in sostanza la “deportazione” dei richiedenti asilo in Ruanda, esternalizzando così alle autorità di Kigali persino l’esame delle domande di asilo.
Quindi il tribunale di Roma che, come era prevedibile, ora accoglie i rilievi sempre della Corte di giustizia europea sui Paesi considerati sicuri sulla carta (mentre la realtà dice altro) è in buona compagnia.
Non c’è insomma un giudice solo a Roma, e non è per forza invasione di campo. Ricorda alle cancellerie europee interessate all’“esperimento” italiano in Albania l’esistenza di un diritto internazionale umanitario solido e pensato non per favorire i migranti ma il cui scheletro risale al 1951 per tutelare soprattutto i tanti europei dell’Est che fuggivano dalle dittature comuniste oltre la cortina di ferro, in quei Paesi come l’Ungheria oggi paradossalmente in prima linea contro l’arrivo di profughi e rifugiati.
Occorre poi non abbandonare la via dell’umanità e del buon senso applicando la legge ai più vulnerabili. Chi infatti proviene dall’inferno della Libia, qualunque sia la sua nazionalità di origine, si porta dietro un passato fatto di detenzioni, torture e violenze da parte dei trafficanti, e per questo soffre regolarmente di stress post traumatici.
Ed è poi fondamentale determinare con certezza l’età dei minori non accompagnati, molti dei quali spariscono dai radar sulle rotte migratorie e diventano potenziali prede dei peggiori criminali, come trafficanti di organi, pedofili e sfruttatori sessuali.
Per farlo non basta, come dimostra la breve vicenda dei centri albanesi, qualche sommario accertamento in acque internazionali: il margine di errore è elevato, e non è consentito sbagliare. Questo accade perché l’Italia e i principali Paesi europei hanno ratificato le convenzioni internazionali che li obbligano a proteggerli.
La Corte di giustizia europea e i giudici nazionali ricordano ai cittadini che la dignità umana in Europa si rispetta in una cornice di civiltà e democrazia. Il caso Albania ci ricorda che i diritti dei deboli non sono mai diritti deboli.