Il naufragio di Prodi
Una scrittrice albanese e italiana critica l’ex premier che vorrebbe trasformare l’Ucraina in uno Stato cuscinetto, con un approccio che strumentalizza i popoli, riducendoli a merce di scambio tra potenze.
D’altronde fu lo stesso Prodi a definire un incidente lo speronamento della Kater i Radës del 1997
Scrivo oggi come albanese e italiana, come intellettuale e come parte lesa di una storia che non si è mai voluta riconoscere del tutto. Una storia di ferite e parole sfuggenti, di responsabilità negate e verità nascoste sotto il velo opaco della “stabilità”.
Perché proprio oggi, quando sento le parole di Romano Prodi, colui che un tempo rappresentava l’Italia in Europa, dire che l’Ucraina sarebbe stata più «utile» come Paese «cuscinetto» tra Russia e Nato, non posso fare a meno di rivivere un’eco che mi riporta al 28 marzo 1997.
Quell’anno, infatti, nel mare Adriatico, centotré miei connazionali perirono nel tentativo di fuggire dalla miseria; la motovedetta su cui viaggiavano, la Kater i Radës, venne speronata da una fregata italiana, la Sibilla, lasciando al mare e al silenzio le vite e i destini di persone che cercavano un rifugio, una speranza. La tragedia fu presto archiviata come incidente.
Prodi, lo stesso Prodi, allora presidente del Consiglio italiano, liquidò quella tragedia con parole tanto misurate quanto disumane, classificandola come una fatalità della storia, come un errore tecnico di chi, in quegli anni, stava “contenendo” la questione migratoria. Era una forma di geopolitica del sacrificio, mascherata da linguaggio neutro.
Oggi, con la stessa semplicità, dice che l’Ucraina avrebbe dovuto restare “neutrale”, una zona cuscinetto tra due blocchi, sacrificata a una stabilità teorica. Una dichiarazione che parla di equilibrio, certo, ma anche di disumanizzazione e di un’ideologia del sacrificio che dimentica le persone, che non considera le vite umane ma solo i confini, le barriere, le terre di mezzo.
Ma davvero è accettabile trattare la vita e la dignità di un popolo come una merce di scambio tra potenze? È un pensiero che fa rabbrividire. Come scriveva Milan Kundera, “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio.”
In queste parole risuona il dolore di chi, come me, non ha mai dimenticato ciò che accadde nel 1997, la disumanità di un governo che non volle prendersi carico delle proprie responsabilità. Essere ricordati, essere riconosciuti, è parte fondamentale della dignità di un popolo, e ignorare questa memoria è una forma di oppressione silenziosa, di violenza invisibile che non smette mai di colpire.
Il 28 marzo 1997, la Kater i Radës navigava verso le coste italiane, carica di famiglie, di giovani, di padri e madri in fuga dal collasso economico e sociale dell’Albania. Il crollo delle piramidi finanziarie aveva gettato l’intero paese in una spirale di disperazione; molti avevano perso tutto, e l’Italia rappresentava per loro un sogno di salvezza, una promessa di dignità.
Ma quella speranza si trasformò in tragedia, la tragedia del Venerdì Santo, quando la fregata italiana Sibilla, su ordine di respingere le imbarcazioni clandestine, speronò la motovedetta, lasciandola inabissarsi in pochi minuti. Chi viaggiava su quella barca trovò la morte, le loro famiglie trovarono il silenzio e l’indifferenza.
Quando Prodi parlò di incidente, di errore, come se quelle vite fossero un dettaglio tecnico, l’intera comunità albanese si sentì tradita, negata nella propria umanità. Non c’era nessun errore in quelle vite; c’era la disperazione di chi era costretto a partire, di chi cercava dignità oltre le proprie frontiere. Non si trattava di uno sbaglio, ma del prezzo imposto a un popolo che per anni era stato considerato un problema da arginare.
La tragedia della Kater i Radës non fu solo un naufragio; fu una ferita aperta nella coscienza albanese, una memoria non riconosciuta che ancora oggi ci richiama al dovere della verità. Questa verità è parte della nostra dignità, ma è anche parte della dignità dell’Italia stessa.
Quando sento Prodi dichiarare che l’Ucraina avrebbe dovuto «rimanere un Paese cuscinetto», risento lo stesso gelo, la stessa volontà di relegare una nazione al ruolo di sacrificabile. L’Ucraina, così come l’Albania del 1997, non è un pezzo di terra neutra, una fascia di contenimento. È un popolo con una storia, con una cultura, con una volontà di autodeterminazione che non può essere ridotta a uno strumento per gli interessi di altri.
La scelta di Prodi di definirla «cuscinetto» non è solo una parola infelice; è l’espressione di una visione che considera alcuni popoli utili solo nella misura in cui rimangono nella propria area d’influenza, nella propria neutralità, nella propria passività.
Ancora una volta, è il linguaggio della geopolitica del sacrificio, di una stabilità raggiunta a spese delle vite umane. Ma come possiamo, come esseri umani, accettare un tale compromesso? Come si può giustificare la pace in un luogo imponendo la sofferenza e l’instabilità in un altro? Come scrisse Jean-Paul Sartre, «l’uomo è condannato a essere libero»; un popolo è dunque condannato ad affermare la propria identità e a rivendicare il proprio diritto di scelta, anche se questo diritto non si adatta ai giochi di potere delle grandi potenze.
Scrivo oggi non solo per rivendicare la dignità della comunità albanese, ma anche per richiamare l’Italia alle sue responsabilità storiche. Perché la verità non è solo un diritto dei sopravvissuti e delle vittime; è un dovere morale di ogni società che si consideri giusta e civile.
Primo Levi ci ha insegnato che «chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo»; l’Italia, e l’Europa intera, non possono permettersi di dimenticare. E questo dovere di ricordare non è rivolto solo ai popoli, ma soprattutto ai leader che, come Prodi, dovrebbero rispondere delle proprie parole e delle proprie decisioni.
Oggi, da italiana, io chiedo che si facciano finalmente i conti con la storia. Perché ogni volta che una tragedia viene ridotta a un “incidente” o un popolo a un “cuscinetto”, la dignità umana è vilipesa, ed è la stessa storia di un paese che viene sporcata. Il dolore, l’incomprensione, il silenzio non sono solo una ferita per la comunità albanese, ma una mancanza di giustizia per il popolo italiano, che merita di riconoscere il proprio passato per costruire un futuro autentico.
Questa memoria che porto dentro come albanese è una memoria che appartiene anche all’Italia; perché è l’Italia che deve riconoscere, chiedere scusa, accogliere quel pezzo di storia che non ha voluto vedere. Pretendo che queste scuse arrivino, non per riaprire ferite, ma per risanarle, per restituire alla comunità albanese e all’Italia stessa una dignità che non può essere sacrificata in nome di alcun interesse.
La verità non è un favore, è un diritto inalienabile di ogni essere umano, perché, come scrisse George Orwell, «nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario».