di Massimo Franco
La destra ha vinto, la sinistra ha perso
in Liguria.
Ma per un’incollatura.
E il risultato provocherà qualche increspatura, in particolare nello schieramento sconfitto: sebbene entrambi dovrebbero riflettere sul calo dell’elettorato, che ridimensiona e accomuna vittorie e sconfitte. Né si può ignorare la coincidenza di questo voto locale con uno sfondo di scandali, tensioni legate alla manovra economica, e dossieraggi inquietanti.
Ma per paradosso, uno dei tanti di questo voto, avrebbero dovuto favorire le opposizioni e non la maggioranza di Giorgia Meloni. Si pensava che l’inchiesta giudiziaria che ha travolto la giunta di Giovanni Toti avrebbe spianato la strada al Pd e agli alleati.
Invece, alla fine il tre a zero che sognavano di incassare tra Liguria, e poi Umbria e Emilia-Romagna, chiamate alle urne a novembre, al massimo diventerà un due a uno. Il partito di Elly Schlein può essere soddisfatto del risultato ottenuto in una regione dove continua ad avere un certo radicamento: è nettamente primo, quasi doppiando FdI.
Il problema è che non gli è bastato per vincere. Ieri ha ricevuto la conferma che le sue alleanze sono virtuali e perfino ininfluenti, se il proprio candidato trascina meno della coalizione. Radicalizzano le liti e minano la credibilità dello schieramento del quale in teoria fanno parte.
Il gioco di veti tra M5S e Iv di Matteo Renzi, aggiunto alla faida grillina tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte sono stati atti di sabotaggio più o meno intenzionale verso il cartello delle opposizioni. Se qualcuno nutrisse dei dubbi, il voto ligure dovrebbe averli spazzati via.
Non esiste nessun campo, o area, o cartello nel quale possano convivere tutti gli avversari di Palazzo Chigi. Né si delinea, se non nelle mire smisurate di Conte, una competizione tra Cinque Stelle e Pd per chi dovrà fare il capo del governo: tanto più in una prospettiva oggi altamente improbabile di vittoria della sinistra.
Il M5S è sotto il 5 per cento nella regione di Grillo, che non ha nemmeno votato. Dunque, senza un cambio di schema e di riferimenti, difficilmente il Pd riuscirà a scalfire il primato del destra-centro. Se non ci è riuscito questa volta in Liguria, a livello nazionale diventerà quasi proibitivo.
Detto questo, Meloni, Lega e FI hanno il compito di resistere alla tentazione di sfruttare la rendita di posizione di un fronte avversario slabbrato e diviso. E non solo perché l’affermazione di ieri è arrivata di misura, grazie a un candidato civico in mancanza, come sempre più spesso capita, di un accordo tra alleati.
Il tema della classe dirigente della maggioranza rimane acuto e irrisolto: in primo luogo a livello locale ma, come si vede in queste settimane, con un rimbalzo troppo frequente sull’esecutivo. Esiste poi una questione che riguarda non l’uno o l’altro schieramento, ma il sistema politico.
Il calo di altri sette punti nella partecipazione al voto è un segnale brutto. Si dirà che con la caduta della giunta di Giovanni Toti per le inchieste della magistratura, un astensionismo alto era inevitabile. Può darsi, ma bisogna stare attenti a non crearsi un alibi.
Già alle elezioni europee del giugno scorso, l’affluenza alle urne era stata inferiore al cinquanta per cento. E questo nonostante la presenza dei maggiori leader in lista, che avrebbe dovuto catalizzare la partecipazione; e a dispetto di un sistema proporzionale che permetteva di misurare il peso dei singoli partiti e il loro gradimento.
Senza nulla togliere al successo ottenuto allora da Meloni e Schlein, che ebbero il 28 e il 24 per cento, non si può non osservare che quel risultato va tarato sul 49 e rotti per cento di votanti. E dunque mostra consensi importanti ma di minoranza.
Può sembrare un calcolo ozioso, di fronte a un’affermazione chiara: in particolare se confrontata con le percentuali di altri partiti. Eppure, si delinea come un tema centrale per formazioni politiche che in prospettiva hanno l’ambizione di celebrare e affrontare consultazioni referendarie a ripetizione: sia per contrastare la riforma dell’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega; sia per fare approvare dal popolo un’elezione diretta del presidente del Consiglio, che per Meloni significa «la madre di tutte le riforme».
L’astensionismo a livello locale e alle Europee conferma e sottolinea un fenomeno di distacco non solo dai partiti ma dalle istituzioni. È un campanello d’allarme che sarebbe rischioso non volere sentire. Dice che esiste un popolo elettorale deluso profondamente dall’offerta politica di oggi.
E che, almeno in parte, aspetta di capire chi sarà capace di offrirgli una buona ragione per tornare a votare. È il dilemma inconfessato che ristagna al di là di un risultato chiaritosi in extremis. Incoraggiante per la maggioranza. Disastroso per i suoi avversari. Preoccupante per tutti.
Il rischio di una guerra nucleare è reale. Il 15 ottobre, profondamente preoccupati per questo rischio, un gruppo di 20 paesi tra i quali Austria e Irlanda, hanno presentato una mozione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per chiedere agli Stati di rinnovare il loro impegno al disarmo nucleare, e istituire una Commissione Scientifica indipendente per valutare i rischi reali di una catastrofe nucleare oggi. È una iniziativa limitata ma concreta, seria e lungimirante. Mi auguro vivamente che l’Italia abbia la saggezza di appoggiarla.
La Commissione dovrebbe essere incaricata di “esaminare gli effetti fisici e le conseguenze sociali di una guerra nucleare su scala locale, regionale e planetaria, compresi tra l’altro gli effetti climatici, ambientali e radiologici, e i loro impatti sulla salute pubblica, sui sistemi socio-economici globali, sull’agricoltura e sugli ecosistemi, nei giorni, nelle settimane e nei decenni successivi alla guerra nucleare, e di esaminare e commissionare studi pertinenti, inclusa la modellizzazione ove appropriato, e pubblicare un rapporto completo, trarre conclusioni chiave e identificare le aree che richiedono ricerche future”.
Sorprendentemente, questo sarebbe il primo studio di questo genere condotto dalle Nazioni Unite, dopo quelli degli anni 80, che furono importanti per arrivare ai saggi trattati che hanno portato allora alla riduzione degli armamenti nucleari. Molte cose sono cambiate negli armamenti nucleari da allora, e il rischio potrebbe essere perfino più grave di quanto si pensi.
Quattro considerazioni sono rilevanti. Primo, un governo ha già usato le armi nucleari. Secondo, nei decenni passati abbiamo più volte sfiorato la catastrofe, anche accidentale. Nel caso più clamoroso, il lancio da un sottomarino che avrebbe scatenato la guerra nucleare è stato approvato dal primo e dal secondo ufficiale, ed è stato bloccato dai dubbi e dall’opposizione del terzo, che non era militare di carriera.
Viviamo sull’orlo dell’abisso. Terzo, Gli Stati Uniti hanno recentemente aumentato in maniera drastica gli investimenti nelle armi nucleari. Le superpotenze nucleari ora non sono più solo Russia e America, si sta aggiungendo la Cina, rendendo disequilibrata la deterrenza a due che fino a ora ci ha tenuto pericolosamente vicini alla catastrofe, ma ha evitato il peggio.
Quarto, il recente abbandono dei trattati che mettevano al bando le armi nucleari a medio raggio rende la deterrenza molto più fragile, perché aumenta la tentazione di una scinsiderata rischiosa mossa d’anticipo. Una nuova valutazione seria dei rischi condotta da una autorità al di sopra delle parti come le Nazioni Unite può portare una luce di ragionevolezza, in un mondo che sembra averne molto bisogno.
Mi auguro che l’Italia sappia, come l’Austria e l’Irlanda, vedere l’interesse comune dell’umanità in una questione di importanza così vitale, e sostenere questa mozione. Non è impossibile che la Nato faccia pressione sui suoi membri per ostacolare la mozione. Cedere a questa pressione vorrebbe dire cadere nella miopia dello scellerato gioco di potenza fra le parti, in un mondo sempre più diviso e sempre più belligerante.
Opporsi a una spinta, anche piccola, verso un controllo delle armi nucleari è profonda stupidità. Mi auguro vivamente che questo governo abbia la schiena diritta. In gioco c’è la possibilità stessa del nostro futuro.