di Paolo Mieli
Tra America e Cina
Autodifesa proporzionata.
Con queste parole il presidente degli Stati Uniti d’America e la sua vice (nonché candidata per il Partito democratico alle elezioni presidenziali che si terranno tra nove giorni) Kamala Harris hanno definito l’attacco israeliano all’Iran. Con l’aggiunta di un avvertimento al Paese preso a bersaglio: «Teheran non risponda».
In effetti la cosiddetta «Operazione giorni di pentimento» non ha colpito l’Iran in maniera devastante pur essendo durata quattro ore e avendo provocato alcuni (pochi) morti. Come del resto non era stato drammaticamente distruttivo, il 1° ottobre scorso, il lancio di missili e droni da parte dell’Iran sul territorio israeliano.
Sono parse entrambe più una manifestazione di ostilità e di potenza da esibire ai propri popoli che azioni di guerra vere e proprie. Netanyahu oltretutto ha fatto precedere il suo lancio di missili da una lunghissima attesa e da consultazioni anche personali con i vertici statunitensi. Inoltre, non ha colpito né gasdotti né centrali nucleari. E ha provocato danni forse ingenti ma che gli iraniani sono in grado di minimizzare.
Inoltre, i due Paesi, sia all’inizio di ottobre che ieri, si sono scambiati messaggi trasversali avvertendosi l’un l’altro del momento in cui avrebbero attaccato e, secondo alcune fonti, segnalandosi reciprocamente gli obiettivi verso i quali si sarebbero indirizzati. In modo da ridurre al minimo il numero dei morti.
Ammesso che tutto ciò sia vero, si è trattato di operazioni delicatissime. Di quelle che possono facilmente sfuggire di mano. Ragion per cui sarebbe sciocco sottovalutarle e trattarle come semplici rappresentazioni di una guerra che in senso proprio non sarebbe (ancora) in atto. Ma lo sforzo del giorno successivo di illustrare i successi dell’iniziativa (l’Iran un mese fa, ieri Israele) appaiono viziati da un eccesso di enfasi.
In più, sempre attraverso canali clandestini (non si sa quanto affidabili), l’Iran avrebbe fatto sapere che, in contrasto con le pubbliche minacce di rappresaglia, stavolta non reagirà. Il che può voler dire che, se reagirà, lo farà in modo assai diverso e più violento. E che quelle di ottobre possono essere considerate alla stregua di una prova generale. Per Israele, ovviamente, vale lo stesso discorso.
Se ne può dedurre che la vera novità della giornata sia stata la reazione della Casa Bianca. Così diversa da quelle che nei mesi scorsi insistevano sulla «sproporzione» delle reazioni israeliane e sfioravano appena il tema dell’«autodifesa» di Gerusalemme dall’aggressione di formazioni militari ispirate da Teheran.
Tra le righe della dichiarazione del duo Biden-Harris si leggono poi due messaggi. Il primo, pressoché esplicito, ai capi del governo israeliano: concordate con noi ogni passaggio futuro, quantomeno della parte del conflitto che riguarda direttamente l’Iran e vi sosterremo alla maniera dei vecchi tempi.
Il secondo, più obliquo, è rivolto all’Arabia Saudita. In che senso? L’interpretazione corrente del pogrom del 7 ottobre è che esso sia stato incoraggiato e forse anche ideato da Teheran per impedire che l’Arabia Saudita si facesse coinvolgere negli «Accordi di Abramo».
Accordi nati da una dichiarazione congiunta tra Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti (13 agosto 2020) che prevedevano un riconoscimento reciproco in cambio di un impegno alquanto vago a far nascere uno Stato palestinese. E infatti dopo l’attacco di Hamas, l’Arabia Saudita, pur senza compromettersi con il conflitto, ha sospeso ogni trattativa (che sembrava essere a buon punto) in «direzione Abramo».
Non solo. A marzo, su iniziativa cinese, i rappresentanti dell’Iran sciita e dell’Arabia Saudita sunnita — due Paesi da lungo tempo tra loro ostili che per un discreto periodo avevano interrotto le relazioni diplomatiche (dal 2016) e si sono combattuti in Yemen per interposte milizie — si erano incontrati e avevano stabilito un dialogo da essi stessi definito proficuo. A tal punto proficuo che la settimana scorsa Iran e Arabia Saudita avevano annunciato una manovra navale congiunta.
Questo piccolo capolavoro cinese aveva colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori e spostava la collocazione internazionale dell’Arabia Saudita. Allontanandola da Washington e avvicinandola, più che a Teheran, a Pechino. Tra le righe dell’asciutto ancorché esplicito commento statunitense si nasconderebbe un avvertimento all’Arabia Saudita: gli Stati Uniti considerano un atto di inimicizia ogni alleanza con l’Iran.
Non si può infine non notare che con le due parole di cui abbiamo detto all’inizio (quella di Gerusalemme sarebbe un’«autodifesa proporzionata») Kamala Harris rischia di vanificare a pochi giorni dalle elezioni il gigantesco sforzo che aveva fatto per recuperare il voto di quella parte del Paese, soprattutto giovanile, fortemente antiisraeliana e poco amante dei distinguo. Sembra evidente che di ciò fosse consapevole.
E che, se ha deciso di non lasciare l’incombenza al solo Biden, quella dichiarazione contenga più di quello che riusciamo ad immaginare.