di Daniele Zaccaria
Il caso
Abbonati in fuga dopo il mancato endorsement di Bezos per Kamala Harris: in pochi giorni la testata del “Watergate” ha perso 250mila lettori ed editorialisti di prestigio
È una rivolta senza precedenti quella dei lettori del Washington Post letteralmente indignati dal mancato endorsement della storica testata per la candidata democratica Kamala Harris.
La linea “neutrale” tracciata venerdì scorso dal direttore William Lewis e dal proprietario Jeff Bezos, oltre ad aver sconcertato la redazione, sta provocando una fuga di massa dal quotidiano noto nel mondo per l’inchiesta del watergate: in soli tre giorni sono infatti 250mila gli abbonamenti stracciati, circa il 10% del totale.
Migliaia le lettere e i messaggi di protesta per una scelta che appare del tutto incomprensibile in un giornale che, dal 1988, ha sempre indicato le sue preferenze politiche alla viglia delle elezioni presidenziali. È una consuetudine americana quella degli endorsment politici da parte dei comitati editoriali, ma anche una forma di trasparenza verso i lettori.
L’annuncio di Lewis è piombato in redazione proprio mentre i giornalisti stavano preparando un articolo a supporto di Harris, poi soffocato in culla da Bezos che ne ha impedito la pubblicazione. Il sindacato denuncia una «indebita ingerenza alla vigilia di un’elezione che avrà un’ importanza storica».
L’editorialista Robert Kagan, già ex consigliere di George W. Bush, ha rassegnato le dimissioni pronunciando dagli schermi della Cnn parole pesantissime nei confronti della direzione e della proprietà: «Si tratta di una capitolazione intellettuale, il giornale si è inginocchiato a Donald Trump perché ha paura di ritorsioni». Kagan ha poi denunciato l’incontro avvenuto qualche giorno prima tra Donald Trump e David Limp, amministratore delegato del gruppo aerospaziale Blue Origin di proprietà di Bezos.
Il padrone di Amazon e secondo uomo più ricco del pianeta naturalmente ha provato a smentire il presunto conflitto di interesse, affermando che la decisione è stata presa all’interno del giornale che controlla dal 2013 e non per pressioni esterne. Poi ha rivendicato la sua scelta in nome dell’imparzialità e dell’indipendenza e non di sospetti interessi personali o per paura di ritorsioni da parte di Trump.
Diciannove tra editorialisti e commentatori gli hanno risposto sul sito web del quotidiano nella sezione “opinioni” con un testo molto esplicito: «Se fosse un atto di indipendenza intellettuale e di integrità, Bezos avrebbe potuto annunciarlo già nel 2021, nel 2022 o anche lo scorso anno.
Si tratta di una scelta preoccupante considerando che le posizioni di Trump minacciano la libertà di stampa e la stessa Costituzione americana». L’unica cosa che Bezos ha ammesso è la tardività della sua decisione alimentando il dubbio che già conosca chi sarà il vincitore del voto della prossima settimana.
Dall’altra parte degli Stati Uniti, sulla West Coast, un altro grande quotidiano sta attraversando una crisi simile: il proprietario del Los Angeles Times, l’imprenditore Patrick Soon-Shiong, ha anche lui impedito l’endorsment del comitato editoriale per Kamala Harris, provocando le immediate dimissioni di tre membri del consiglio di amministrazione del giornale: «È una loro scelta», è stato il laconico commento di Soon-Shiong.
La svolta neutralista del Post e in misura minore del Los Angeles Times, è diventata un autentico caso mediatico oltreoceano, il che sorprende non poco perché in parte smentisce l’assioma secondo cui i giornali di carta stampata ormai sono delle presenze marginali nel dibattito politico specialmente durante le campagne elettorali che sarebbero influenzate molto di più dall’informazione digitale e dalle piattaforme di social network.
Al contrario le reazioni indignate e l’interesse dei media dimostrano che i giornali sono ancora vivi e vegeti, che i loro lettori non sono minimamente interessati a un’ipocrita e pelosa neutralità e che non cercano un’informazione neutra ma strumenti identitari e di identificazione politica forte.