di Paolo Mieli
America e Ucraina
Domenica scorsa il Washington Post ha dato notizia di una telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin in cui il futuro presidente degli Stati Uniti aveva stabilito, anzi ristabilito, un rapporto cordiale con l’interlocutore.
Telefonata che, sempre secondo il giornale, si sarebbe conclusa con un’esortazione al leader russo a non procedere oltre nell’escalation militare in Ucraina. Il neoeletto capo di Stato Usa non ha ritenuto di rettificare la notizia proveniente da un giornale che non si era pronunciato nel corso della campagna elettorale e, di conseguenza, non poteva essere considerato come pregiudizialmente ostile nei suoi confronti.
Talché nessuno ha pensato a una trappola giornalistica. Il Cremlino ha preso tempo e ventiquattr’ore dopo ha definito lo scoop del giornale americano «pura fiction». Dalla successione temporale di queste mancate dichiarazioni e piccate reazioni si può intuire che la telefonata con ogni probabilità c’è stata. Ma Putin non ha gradito che la notizia del colloquio sia stata accompagnata dall’indiscrezione sull’invito di Trump ad attenuare l’uso delle armi in territorio ucraino.
E per fare capire meglio le proprie intenzioni, lo stesso Putin ha intensificato l’azione nel Donbass e a Kursk. Poi, la notte successiva, ha ordinato un attacco di missili e droni contro Kiev come non se ne vedevano da due mesi e mezzo.
L a successione di questi episodi, apparentemente relativi solo a un’indiscrezione giornalistica, può essere considerata come il primo passo falso di Trump. Prima delle elezioni, Trump aveva promesso che avrebbe risolto la crisi ucraina in un battibaleno. Adesso è costretto a constatare che ha di fronte un Putin diverso da quello con il quale dialogava quattro anni fa.
E che la faciloneria con la quale pensava di poter risolvere il caso — concedendo ai russi le terre «conquistate», lasciando l’Ucraina a secco e interponendo tra il Paese aggressore e quello aggredito un inesistente esercito europeo — è del tutto inadeguata.
Non solo perché umiliante nei confronti di Volodymyr Zelensky, gratificato oltretutto dall’entourage di Mar-a-Lago di autentiche offese e minacce di estromissione. Ma perché, al punto a cui è arrivata la guerra, questa prospettiva non sta in piedi.
Nella sola giornata di ieri il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ribadito al cospetto del Bundestag che non consegnerà i missili Taurus all’Ucraina. Il nuovo capo dell’Organizzazione dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte (per l’occasione assieme all’americano Antony Blinken), ha annunciato che la Nato darà una «risposta ferma» allo schieramento di soldati nordcoreani in Ucraina.
Sempre ieri Maria Zakharova ha detto che, se Kiev otterrà l’autorizzazione a colpire in profondità il territorio russo, l’«inevitabile» risposta sarà «distruttiva». Secondo il New York Times , nelle stesse ore lo speaker della Camera statunitense, Mike Johnson, avrebbe confidato, in un incontro a porte chiuse, ad alcuni deputati trumpiani che non saranno più inviati soldi all’Ucraina. Il caos, insomma.
A cui si aggiunge che ieri in Polonia è stato arrestato un cittadino bielorusso per un tentato incendio doloso a Danzica. Nella stessa Polonia, contemporaneamente, è stata inaugurata una base che fa parte del sistema missilistico balistico statunitense. Da Mosca sono giunte immediate proteste perché la suddetta base è a 230 chilometri dall’enclave russa di Kaliningrad. E potremmo continuare ancora. Insistendo in particolare sul ruolo e le potenzialità militari della Polonia.
Può darsi che alcune di queste parole siano solo chiacchiere al vento. Ma la nostra impressione è che Trump sia giunto non del tutto preparato all’appuntamento dell’emergenza in atto, fuori dai confini del suo Paese. Appuntamento con la Russia, ovviamente con l’Ucraina e con un’Europa a dir poco frastornata.
La situazione che Trump eredita da Joe Biden è assai più intricata di quella che quattro anni fa lo stesso Trump lasciò a Biden in materia d’Afghanistan. Per Biden gli obblighi relativi al passaggio di quelle consegne, fu all’origine, nell’agosto del ’21, del catastrofico ritiro da Kabul. Ritiro che costò all’allora Presidente degli Stati Uniti un danno d’immagine da cui non si è più ripreso. L’idea, adesso, di sgattaiolarsene via dall’Ucraina lasciando la patata bollente nelle mani dell’Europa (pur colpevolmente impreparata a tale eventualità) è semplicemente puerile.
Anche perché ne va dell’affidabilità della Casa Bianca per quel che riguarda l’altra crisi in atto, quella del Medio Oriente dove in queste stesse ore missili houthi hanno colpito navi americane. E al cospetto della Cina con cui il confronto sarà, per così dire, non semplice.
Inoltrarsi in questo modo lungo la via che dovrebbe portare ad un accordo per l’Ucraina fa tornare alla mente il Trump facilone che annunciò di aver ottenuto la pace tra le due Coree chiudendo con un colpo di bacchetta magica una situazione rimasta in sospeso dal 1953. Ci conviene per una volta far finta di credere ai russi e considerare quella del Washington Post come una notizia senza fondamento.
Sperare che il «primo» colloquio diretto tra Trump e Putin avvenga su altre basi. Che Trump, scottato da questo supposto passo falso, si disponga ad un costrutto più serio da proporre agli interlocutori. E che capisca dell’inutilità (o peggio) di affidarsi all’amichevole benevolenza di Putin.