La (panchina) Russa (corriere.it)

di Massimo Gramellini
IL CAFFÈ

Prendiamo naturalmente per buona la spiegazione di Ignazio La Russa.

La spennellata di tricolore sulla panchina rossa installata nei giardini del Senato non intende affatto suggerire che in Italia le donne vengono uccise quasi esclusivamente dai migranti clandestini (i famigerati Filippalì Turettah e Im-Paghna-Thiel-Loh). Il senso di quel bianco e verde aggiunti al rosso, cito il presidente del Senato, è che «la questione deve appartenere a tutta l’Italia».

Ma perché, fino a ieri la panchina simbolo mondiale dei femminicidi apparteneva solo a una parte d’Italia? E a quale, di grazia? Le donne, i comunisti, i daltonici?

Capisco che La Russa, appena vede qualcosa di rosso, parte alla carica come un toro. Ma nel caso specifico la panchina rossa non rimanda alla bandiera omonima, ma al sangue versato dalle vittime e indica il vuoto lasciato dalla donna uccisa nella comunità.

Non è una panchina di sinistra, non ci si siedono sopra gli iscritti del Pd, i partigiani dell’Anpi e i sindacalisti della Cgil. Ma soprattutto non è una panchina italiana. La si può trovare, altrettanto rossa, in Estremo Oriente come in America Latina. La politica, per una volta, non c’entra niente.

E invece è proprio il tricolore che ce la fa rientrare, perché pianta una bandierina su una campagna universale, trasformandola in una rivendicazione nazionale che a qualcuno, La Russa lo perdoni, sembrerà addirittura sovranista.

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