di Davide Coppo
Lo sa raccontare, invece, Gli straordinari di Edoardo Vitale: un romanzo che parla di lavoro, velleità e clima.
È in una compagnia ristretta ma buona.
Durante il Festivaletteratura di Mantova, la rassegna più importante di questo tipo in Italia, la critica letteraria tedesca Anna Vollmer, che si occupa soprattutto di letteratura italiana per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha detto una frase che faceva più o meno così: «Se un tedesco guardasse oggi all’Italia senza esserci mai stato, e usando come osservatorio soltanto i libri degli ultimi anni, penserebbe che l’Italia sia un Paese abitato da vecchie donne con fattezze di streghe che vivono tutte in province isolate dal mondo».
Invece, aggiungeva, «anche in Italia ci sono persone con dei telefoni!». In sala, il pubblico ha riso.
Che la letteratura, non solo in Italia, sia dominata dal memoir o dall’autofiction è un dato di fatto, e questo dominio ha prodotto anche risultati parecchio interessanti. Di questo dominio si discute, la categoria è stata analizzata criticamente, c’è un laboratorio attivo per ibridarla, innovarla, e quindi innovare il romanzo. C’è un altro dominio, più asfissiante, però, ed è quello a cui si riferiva Vollmer. È una malattia, più che una tirannia: la fobia del contemporaneo.
Si può parlare di scopo, per quanto riguarda la letteratura? Io penso di sì, e però se ne può parlare senza postulare uno scopo assoluto, salvifico. La letteratura, scrive Daniele Del Giudice in un saggio, deve «raccontare il mutamento». Nello stesso saggio, paragona le grandi opere del passato a dei naufragi, e la letteratura a un enorme mare.
Delle boe indicano i punti dei naufragi, in modo che navigando, decenni dopo, si possano ancora vedere: qui è naufragato Kafka, qui Conrad, qui Hemingway. Ogni naufragio, continua, è stato a causa di una collisione con i limiti del linguaggio: e i limiti, per colpa di questa collisione, si sono spostati un poco più in là.
Ogni naufragio «ha dimostrato che la letteratura poteva essere anche un’altra cosa» rispetto a prima. Ecco, dice ancora: «In fondo un compito che uno si può dare è proprio quello di mostrare in ogni epoca e secondo i propri mezzi che realtà e linguaggio possono essere incrociati anche in un altro modo, e compiendo quel modo fare il suo bel naufragio. Forse questo si può ancora fare: trovare un posto nuovo dove compiere un piccolo e personale naufragio».
Eccomi arrivato, finalmente, a citare il libro che mi ha portato a tutto questo preambolo: si chiama Gli straordinari, ed è l’esordio, per Mondadori, di Edoardo Vitale. È un romanzo di finzione narrato in prima persona, è breve e lineare, ma mi ha fatto pensare molto a come si può raccontare il presente con la letteratura di oggi: a come si può fare, noi scrittori e scrittrici, il nostro piccolo naufragio inedito.
La storia di Gli straordinari viene narrata dal punto di vista di Nico, un trenta-quarantenne direttore creativo di un’agenzia che si occupa, sostanzialmente, di vendere prodotti innovativi responsabili e green, o meglio greenwashed: sviluppare con i brand idee eco-sostenibili e così via. La co-protagonista è Elsa, la sua compagna da sempre («sua moglie», dice Nico anche se non è vero, perché “compagna” è un nome che fa schifo: concordo). Chi sono gli antagonisti, in tutto questo?
Apparentemente, nessuno in particolare. Ma in realtà sono molti: il core business stesso di pANGEA, i ritmi del lavoro senza limiti nella sfera privata, l’accettazione acritica di tutti i loro progetti, la falsa immagine di sé che Nico ed Elsa cercano di costruire attraverso gli oggetti che comprano, i vestiti che indossano, le cause che sposano, gli esercizi che praticano. Una certa classe creativa, o se non creativa anche solo aspirazionale, si specchierà parecchio nella mediocrità travestita da originalità di quei due.
Vitale non ha voluto scrivere il Grande Romanzo sul lavoro degli anni Venti, e in realtà il senso stesso di Grande Romanzo oggi si è forse perduto, frammentato in tanti piccoli romanzi, ma Gli straordinari è un libro che non potrebbe esistere in un’altra epoca: perché il tipo di ambiente lavorativo e di discorso lavorativo a cui la trama è agganciata è propria di questa precisa epoca, l’epoca del marketing e, diciamo, anche delle puttanate che ci raccontiamo per sembrare persone più virtuose. Vitale è bravo a raccontare l’ipotrofia dell’amore quando è schiacciato nella routine della performance lavorativa, dei social network, delle cose che si fanno solo per poter dire di averle fatte.
È interessante anche l’utilizzo dell’elemento climatico: gli incendi che circondano Roma e intossicano l’aria e da emergenza diventano presto abitudine, e forse proprio quando si realizza quanto questo elemento potrebbe essere un protagonista a sé stante verrebbe da chiedere, al romanzo, uno sforzo in più, un respiro più ampio. Insomma, ti verrebbe voglia di dirgli: potevi provare a esserlo, però, un Grande Romanzo del marketing senza scrupoli e delle città caldissime.
Si capisce bene, quindi, cosa riesce a fare questo libro: descrivere con la fiction e con l’invenzione qualcosa in cui specchiarci, e vedere delle ombre distorte di questa realtà. Mi sembra che invece spesso, oggi, i romanzi letterari vogliano fare l’operazione opposta, e cioè rinunciare di proposito a fare il loro personale naufragio, evitare il presente come si evita il malocchio, rifugiarsi in qualcosa di antico, forse più comodo, forse con un valore intrinseco che, però, non ci dice niente di più nel mondo in cui poi ci troviamo a vivere (ne scriveva nel 2017 anche Cristiano de Majo, qui).
E quindi ecco le donne stregonesche di cui parlava Vollmer, ecco le storie di povertà e isolamento usate come quadri di maniera, ecco una lunga coda (anche naturale, per carità: con un limite) di emulazioni di Elena Ferrante, ecco gli anni pre-moderni, il mondo pre-globale, senza la minaccia dei computer, di internet, della metropolizzazione, degli smartphone, del liberismo.
Non significa che non ci siano romanzi che lo fanno, e lo fanno egregiamente: se dovessi raccogliere qui un piccolo canone di cose uscite di recente, ci metterei Le perfezioni di Vincenzo Latronico (Bompiani), in dozzina allo Strega 2022, una storia di due nomadi digitali che lancia diverse eco ne Gli straordinari, oppure Estate caldissima di Gabriella Dal Lago (66thand2nd), ancora relazioni, ambizioni, precariato e clima; ma anche Il profilo dell’altra di Irene Graziosi (E/O), storia di social network, influencer e percezione di sé. Ci metterei anche Polveri sottili di Gianluca Nativo, più tondelliano e quindi romantico ma saldo nel presente, o Il capo di Francesco Pacifico, in cui si mischiano sesso, possesso, capitale e lavoro.
O Miden di Veronica Raimo (Mondadori), una storia di molestie sessuali in una società utopica insopportabilmente perfetta, e dimostrazione che non si deve usare solo uno sfondo contemporaneo per raccontare il contemporaneo è anche Missitalia di Claudia Durastanti (La Nave di Teseo), romanzo, direi, sul mito del progresso: qui la Basilicata, terminato il petrolio da estrarre, diventa base di lancio per la colonizzazione della Luna. E poi ancora, dimenticherò molti e molte, e cito per concludere diversi romanzi di autori come Siti, Piperno, Giordano, Missiroli.
Non posso qui rispondere al perché la letteratura italiana di oggi spesso rinunci a raccontare i cambiamenti del presente, anche se qualche teoria la potrei azzardare, al netto del sempre valido “è il mercato che chiede altro”. C’entra, soprattutto in Italia, un immaginario culturale che tradizionalmente diffida del presente, trovandolo poco elegante.
C’è una questione di hardware, azzarderei: la falsa illusione che il libro, oggetto immutabile, di carta, tecnologia così obsoleta, debba raccontare la stessa obsolescenza. È certamente una questione di coraggio: imitare è più facile che inventare.
Rimango però al saggio già citato di Del Giudice: qui, ancora, scrive che la lingua della narrativa italiana (e del giornalismo, aggiungerei) è storicamente più figlia della tradizione della poesia che del romanzo borghese, e questa ambizione, a essere sempre più poesia che romanzo, a essere sempre qualcosa di più nobile del povero mondo tangibile, penso si rifletta anche oggi: e allora i romanzi che continuano a nascere ambiscono a essere romanzi fuori dal tempo, lontani dal contemporaneo, romanzi di grandi e potenti sentimenti, romanzi di traumi e dolori, anziché romanzi di cose, romanzi di lavoro, romanzi di tecnologie, romanzi anche non impegnati, anche frivoli, romanzi di influencer, di microchip, di ragazzi della strada, di lavori del cazzo.
(L’immagine è un dettaglio della copertina del libro, realizzata da Guim Tió)