Il grosso grasso mercato attorno alla giornata contro la violenza sulle donne (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

In questi giorni si è visto di tutto. Dalla cartellonistica ai podcast, dai portachiavi ai post dei volti noti. Ma alla fine serve solo a parlarci tra di noi che sappiamo già le cose

«Stai anche tu con Conad dalla parte delle donne: acquista a soli due euro e novanta il portachiavi fatto a mano dalle donne africane». Quando lo spot passa, tra una canzone e l’altra, Amedeo Minghi ha appena detto «Serenella ti porto al mare ti porto via», e io mi sto chiedendo se oggi quel verso starebbe su uno dei manifesti «se te lo dice è violenza».

Oggi che è «La giornata internazionale per l’eliminazione contro la violenza sulle donne», come sento dire a una tizia che, come i supermercati e le scrittrici e un po’ chiunque, ha un prodotto relativo alla violenza sulle donne da vendere (nel suo caso, un podcast), e per un attimo il suo lapsus, «l’eliminazione contro la violenza», mi distrae dalle domande importanti: una buona causa, se la monetizzi, è ancora buona causa o diventa altro?

Impegnata com’ero a pensare a quanto lo spot Conad somigliasse a quella direttrice di settimanale che quando arrivavano i reportage dall’Africa sospirava «come sono belli questi bambini poveri», l’ho dovuto risentire (Spotify me lo passava spesso, doveva aver capito che ero il suo pubblico) per accorgermi che il portachiavi «per dire a tutti che stiamo dalla parte delle donne» costa sì 2 euro e 90 ma, per ognuno che ne vende, Conad devolve un solo euro. Non sia mai ci rimetta.

Nei giorni che hanno condotto a questa giornata internazionale che come tutte le giornate internazionali non serve alla causa di cui è giornata internazionale ma, appunto, solo a creare intorno a essa un mercato (non necessariamente monetario: anche la visibilità è una valuta, il posizionamento è una valuta, «dire a tutti che stiamo dalla parte delle donne» è una valuta), in questi giorni si è visto di tutto.

La cartellonistica in cui se lui ti dice «cosa ti trucchi a fare» è violenza, su cui tocca pure mettersi a discutere con quel miracolo della contemporaneità che è il pubblico che più è inattrezzato più è perentorio. Non ci trucchiamo per gli uomini, ti spiegano ragazze cui Google ha detto che «vanità» significa «frivolezza», mica il peccato dell’apparenza, necessariamente legato a uno sguardo altrui.

A Bologna, su uno di questi cartelloni, una mano piuttosto spiritosa ha sostituito a «violenza» il cognome del sindaco. La frase è così diventata «“Non sei in grado, decido io”: se te lo dice è Lepore». Vi vedo che mi volete spiegare che queste sono cose delicate, che c’è un pubblico appunto inattrezzato che ha bisogno di farsi spiegare da un cartellone quali comportamenti siano, come dite oggi, tossici. Solo che la comunicazione tra due esseri umani non funziona come gli slogan pubblicitari.

Quello che accade tra due persone che si conoscono bene ha codici linguistici che dall’esterno sono indecifrabili, come sa chiunque abbia provato a intervenire in un’apparente scena di prepotenza e sia stato respinto con sdegno dall’apparente vittima. Quindi non si può fare niente? Forse qualcosa si potrebbe, ma niente che nessuno abbia voglia di fare: si può spiegare – ma sarebbe un lavoro di secoli – che la coppia è una cosa che se accade bene e sennò bene lo stesso.

Che, se non riesci ad aderire alla mozione Raffaella Carrà («trovi un altro più bello che problemi non ha»), puoi comunque mollare quello che non vuole farti truccare per gelosia: essere la zitella di famiglia non è la cosa peggiore che ti possa capitare (anzi).

Ma, siccome sarebbe un lavoro lungo e difficile, preferiamo farne uno inutile che preveda impossibili codici condivisi e si basi su una fantascienza in cui tutti sappiano con certezza quando la tua relazione è sbilanciata o violenta o morbosa, e lo sappiano da parole fisse: se ti dice che sei negata a fare la spesa è violenza, mica è che tu non ti ricordi mai cosa comprare e preferisci che al supermercato ci vada lui, no, non potete gestirvela voi due che vi siete presi le misure, la pubblicistica ha deciso che è violenza e lo è.

O è patriarcato, la parolina magica che guai a chi ce la tocca, a chi osa dubitare che sia una società patriarcale una società in cui la mattina presto le città sono piene di uomini che fingono di non annoiarsi moltissimo a portare a scuola bambini petulanti e lentissimi come tutti i bambini, con le loro biciclettine e le loro fisime e le loro pretese che una volta sarebbero state smollate a una tata, ma adesso no, perché l’uomo nuovo passa la paternità a farsi filmare mentre cambia pannolini e ad accompagnare pargoli ovunque e pure a farsi la skincare: conosciamo tutti uomini adulti che si sono ridotti a mettersi l’idratante assieme alle figlie ottenni, altrimenti quelle poi crescono vessate dal patriarcato.

Luca Ricolfi, commentando il linciaggio di Valditara colpevole di non riconosciuto patriarcato, ha detto che «il concetto di patriarcato non funziona assolutamente come categoria analitica, è uno pseudoconcetto», e io lì ho pensato a quanta della roba che ci palleggiamo nel dibattito pubblico si attagli la definizione di «pseudoconcetto» e mi sono sentita un po’ male (se ti dice «pseudoconcetto» è violenza?).

E poi ci sono gli attori. Gli attori, i cantanti: la gente famosa. Che si è tutta (molta, via) messa lì a dire la sua brava frasetta dal valore d’un braccialetto Conad. Si sono concentrati sul no che è sempre un no (il che è una balla, come sa chiunque abbia più di dodici anni, ma abbiamo già capito che gli pseudoconcetti sono anche macroconcetti, e quindi non stiamo a sottilizzare sui molti no che erano sì che qualunque persona adulta ha detto nella propria carriera sentimentale).

Prima ci sono una serie di tizie famose che dicono che se ti dico di no non puoi scoparmi (ma giura), «anche se»: anche se sei un mio ex, anche se un attimo prima di cambiare idea t’avevo lanciato le mutande, anche se sei il mio capo, anche se sono sbronza. Poi ci sono una serie di tizi famosi che, con facce adeguatamente contrite, fanno il controcanto del «se tu non vuoi, io non posso» (anche se prima era sì, anche se mi hai dato il tuo numero, anche se stiamo insieme da sempre).

Ora, io non voglio fare quella che nella giornata dell’eliminazione eccetera prende per il culo la buona volontà, però non possiamo neanche far finta che quel video non sia stato preso per il culo la settimana scorsa quanto lo era il Tg4 trent’anni fa. Forse è utile farsi una domanda: per chi è, quel video?

Per chi è sensibile alle persone famose, mi ha suggerito un’amica, per qualcuno per cui la differenza possa farla la disapprovazione della Cortellesi (la prima a comparire nel montaggio). Ma la Cortellesi sono decenni che fa monologhi sulle questioni di genere nei varietà di Rai1, se la differenza presso il suo pubblico non l’ha fatta finora non sarà come pensare che Kamala Harris vinca perché dicono di votarla i famosi? No, la vera obiezione non è questa.

L’obiezione è il processo Pelicot, una storia che stravolge chiunque provi ad affrontarla e della quale si parla tra chi fa i giornali con una frequenza che poi non si riflette nelle pagine dei giornali. Non so perché non ne parlino spesso gli altri, ma posso rispondere per me: è una storia talmente enorme che non so mai da che parte prenderla, so che bisognerebbe scriverne tutti i giorni ma non so come.

Oggi voglio concentrarmi su un dettaglio: le testimonianze degli imputati. Di questi cinquantuno derelitti che il marito della signora Pelicot ha reclutato su internet per stuprare la moglie venendo filmati, e già il fatto che abbiano acconsentito non fa dei cinquantuno l’élite né sociale né intellettuale – certo, neanche quella morale, ma questo lo darei per scontato, visto che non siamo in uno spot.

Tra questi derelitti che hanno vite di abiezione e miseria che vediamo in genere solo nei film americani – e invece erano in Provenza, come se fosse successo in Maremma – ci sono un macellaio cinquantaquattrenne che ha testimoniato di aver capito, in galera, che la donna non appartiene all’uomo; un soldato ventiseienne che dice che non aveva mai sentito parlare del concetto di «consenso», che ha anche lui appreso solo in prigione (le galere provenzali sono molto educative, a quanto pare); un sessantunenne che dice che lui del consenso di Gisèle Pelicot non si era preoccupato perché è abituato a fare orge e lì sono sempre i mariti che ti danno il permesso di scopare le mogli.

La mia domanda è: il mondo di chi fa i video dicendo che se ti dico di sì ma poi cambio idea a metà tu devi rispettare la mia mutata disponibilità e non osare protestare, quel mondo lì si parla con quello di chi non sa cosa significhi «consenso» o pensa sia una cosa che i mariti concedono per conto delle mogli? Io sospetto che siano due mondi tra i quali non c’è nessun canale di comunicazione.

Sospetto che il video «se tu non vuoi, io non posso» sia come le foto in cui ci si pittava la striscia rossa in faccia, come i video in cui ci si tagliava una ciocca di capelli, come il quadrato nero su Instagram, come la mano con su scritto «Ddl Zan»: roba che serve al posizionamento di chi la fa, alla coscienza di chi la fa, all’ego di chi la fa. Io sospetto che il video in cui Luisa Ranieri e Amadeus ti dicono che a voler scopare bisogna essere in due non parli al macellaio della Pelicot, ma al padre che fa la skincare con la figlia – solo che lui già lo sa, lui già mai oserebbe.

Ci parliamo solo tra di noi che sappiamo già le cose. Solo tra di noi con cui è superfluo parlare dei fondamentali, perché un minimo di uso di mondo ce l’abbiamo. Tra di noi che, se sentiamo l’invito a comprare il braccialetto delle donne africane, non facciamo delle pernacchie in pubblico, perché siam gente di mondo e sappiamo star seri con la faccia. Anche se ci viene moltissimo da ridere.

(Ludovica Anav – Donne)

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