"Medio Oriente? Non si può pensare di pacificare la zona soltanto con i bombardamenti"
«Kyiv è in Europa ed è lì che ci giochiamo la nostra credibilità».
Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, commenta la visita del presidente del Consiglio Ue, António Costa, e della leader della diplomazia europea, Kaja Kallas, nella capitale ucraina, domenica.
Professore, Ucraina, Stati Uniti di Trump, Medio Oriente: quale dossier viene prima per questa nuova legislatura europea?
«L’Ucraina, senza il minimo dubbio. Perché è in Europa. Ed è alla nostra portata. I paesi membri e l’Unione nel suo complesso hanno capacità militare, politica, demografica ed economica sufficiente per potersi attivare maggiormente sul quel fronte. Oltretutto le conseguenze di una disfatta di Kyiv sarebbero probabilmente letali per il nostro futuro. E accentuerebbero di gran lunga tutte le altre criticità che riguardano gli altri due dossier».
Nel frattempo dovremo gestire dei rapporti con gli Stati Uniti di Trump che son si preannunciano facili.
«La Ue si confronterà con Trump in una condizione in cui non è stata capace di mettere in sicurezza il suo fianco orientale da dove proviene da oltre tre anni una minaccia. Quindi, agli occhi di Trump, i motivi per arrivare a una sua migliore valutazione non ci sarebbero proprio. Né in termini commerciali, né per il nostro ruolo politico-militare».
Parliamo allora di questa componente militare. Stavolta la Difesa comune europea ha delle chance oppure rischia un altro flop com’è stato negli anni Cinquanta?
«Il progetto riposa sulla volontà degli Stati membri, che devono attivarsi in maniera decisa. Se non lo fanno, la buona volontà della Commissione resta lì. È chiaro che un’Europa più attiva militarmente, in grado di garantire a sé stessa la sicurezza e di proiettarla oltre i propri confini, è un partner più pesante nelle relazioni con gli Usa».
Non c’è però un rischio di concorrenza con la Nato?
«Il progetto dev’essere complementare alla Nato. Questa include Usa, Gran Bretagna e Canada e, come tale, ha una propria competenza su una serie di questioni di carattere globale. D’altra parte, se l’Alleanza atlantica non riuscisse individuare un punto di azione comune, potrebbero crearsi quelle condizioni vantaggiose per far agire l’Europa con una propria Difesa comune».
Con Trump si arriverà a una conclusione della guerra in Ucraina?
«Inevitabilmente. Non fosse altro perché avrà quattro anni di presidenza davanti. Per cui è un po’ difficile immaginare che questa guerra duri così a lungo. Sia per le difficoltà ucraine, in termini di uomini e donne da impiegare al fronte, sia perché le armi occidentali o arrivano in maniera più copiosa oppure si apre un problema enorme. Poi c’è l’economia russa. Con buona pace di chi diceva che su Mosca non avrebbero inciso le sanzioni. Con un’inflazione galoppante e la continua svalutazione del rublo, sarà difficile per Putin sostenere all’infinito gli sforzi economici di questa guerra. In più c’è l’aggravamento della situazione in Medio Oriente. Laggiù i russi erano convinti di aver raggiunto un punto di equilibrio, soprattutto nelle relazioni con l’Iran e la Turchia. Quanto sta accadendo rimette tutto in discussione».
Tornando all’Ucraina, la ricostruzione è un’opportunità che l’Europa può offrire?
«L’opportunità per l’Europa è che l’Ucraina non crolli. Altrimenti crolla il progetto europeo. La ricostruzione del paese è un follow up. Richiederà un importante impegno economico. Ma è una questione che si presenterà successivamente».
Lei ha già accennato al Medio Oriente. Quali sono i rischi per l’Europa di una nuova crisi in Siria?
«Il ritorno del terrorismo e la destabilizzazione del Golfo sono una fonte di preoccupazione per noi europei quanto per tutti. Possiamo poi aspettarci nuovi flussi di profughi. Come già successo pochi anni fa. D’altra parte sono la dimostrazione di come nessuno possa pensare di pacificare la zona soltanto con i bombardamenti. Non ci sono riusciti gli Usa, non ci riusciranno gli israeliani».
L’Europa può fare qualcosa?
«Direi non molto. Se non contribuire a un raggiungimento del cessate il fuoco in Libano. Potremmo intervenire se un domani venisse raggiunto un accordo su Gaza, attraverso un nostro coinvolgimento di carattere politico, finanziario. Del resto, è già in corso una pressione politica sul governo israeliano affinché questa guerra non sia portata avanti chissà fino a quando e a scapito di una qualunque chance di una Palestina indipendente nei prossimi anni».