Visi e voci dei vivi in Ucraina nel docufilm di Francesca Mannocchi (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

L’aria da fine della guerra è davvero infondata, un’illusione. Ma spinge a ricordarsi dell’inizio. Ecco perché guardare il lungometraggi “Lirica Ucraina”

La notizia ucraina di ieri era in un trafiletto, o nemmeno: Zelensky ha obiettato ai media internazionali secondo cui le perdite militari ucraine ammontano a 80 mila morti. Il numero reale, ha detto, “è minore, molto minore”. Senza fornirlo. Bisogna augurarsi che sia così.

E intanto osservare che si è andata diffondendo un fischiettio da fine imminente della guerra.

 Infondato, ma prezioso a capire la renitenza di chi è mobilitato per il fronte. Morire in una specie di tempo supplementare, quando giri voce che sia già stata fissata la fine e si serve solo a fare numero, è la più penosa delle prospettive. Fa temere di disertare non la guerra, ma la vita.

L’aria da fine della guerra è davvero infondata. Ma spinge a ricordarsi dell’inizio. Non del 2014, in cui tiene a fissare l’inizio chi cancella l’enormità del 24 febbraio e dell’invasione. Francesca Mannocchi ha appena presentato il suo lungometraggio, “Lirica Ucraina”, largamente dedicato a quell’inizio.

Già in Ucraina, a Kramatorsk, prima dell’invasione, Francesca raggiunse Bucha nell’aprile, poche ore dopo la ritirata delle truppe russe che per tre settimane l’avevano occupata. In tempo per testimoniare. Ma nell’ora e mezza del film il suo viso e la sua voce non compaiono mai. Visi e voci sono quelli delle persone sopravvissute alla strage di centinaia, e i corpi muti e accartocciati dei morti ammazzati (quelli che la più triste delle vanità fece dichiarare finti e messi in scena).

A differenza che i servizi televisivi, il film si prende il suo tempo. I tre anni di mattatoio erano di là da venire, così come il mattatoio del 7 ottobre del 2023 e poi la carneficina di Gaza, piegata da qualcuno a far concorrenza all’Ucraina. Si è gelosi di una propria guerra solo se se ne sta alla larga.

Visi e voci dei vivi sono il filo del racconto. Il prologo col bambino che fa da guida al cratere e dice giudiziosamente che gli abitanti non c’erano, fortunati, ma “mi dispiace per l’ospedale”. Con la vecchia che aveva 4 anni quando arrivarono i tedeschi, ora ne ha 86, e il cerchio le si chiude sopra.

Le rovine, scheletri di palazzi, alberi mutilati, mucchi di detriti, rosso di roghi accesi e nero di roghi spenti – la guerra è fotogenica, come i terremoti, come le catastrofi, solo più vanitosa. Soprattutto è oscena, ma non per una morbosità di chi la mostra e di chi la guarda. Non mi era successo di rimpiangere l’abusato aneddoto di Picasso e dell’ufficiale tedesco davanti a Guernica. Ho immaginato un ufficialetto russo che chiedesse a Mannocchi: “L’hai fatto tu?”.

Osceno è ciò che deve restare coperto e viene esposto. Non il nudo, il denudato. Le pareti sventrate e l’interno in vista, l’autopsia di una cucina, una stanza di bambini, di vecchi. I cadaveri slogati, sezionati. Il tremito dei feriti, i moncherini, gli occhi attoniti. Le voragini dentro un campo di girasoli ciechi. Le frasi. Non posso uscire, i cani mangeranno il corpo di mio marito.

Tutti morti, i vicini, piccoli e grandi, e i vicini sono più che parenti. Il racconto lungo, scrupoloso, inebetito, della tortura, e la madre che abbraccia e dice Vuoi farmi piangere ancora? La vergogna, e la rivendicazione: Siamo sopravvissuti, siamo vivi. Ci hanno messo un nastro bianco, come agli ebrei, senza il numero. Se ci consideriamo vittime, diventiamo vittime. Sono venuti a salvarci, dicono, dalla nostra casa, dalla nostra terra, da noi stessi.

Abbiamo, anche in pace, l’esperienza dell’osceno. Uno stupro. Anche solo un furto, una perquisizione, un diario o un video rovistato. Libri buttati giù dagli scaffali che non si vorranno più leggere. Ci sono cuccioli ripudiati per essere stati toccati da uomini.

A Sarajevo le persone curavano di uscire con la biancheria in ordine, per la probabilità di essere spogliate dopo il tiro di uno snajper. E in Ucraina, a Gaza. Mannocchi e i suoi accompagnatori sono andati a fianco degli scavatori delle fosse comuni, al pianto dei funerali, alle trincee dei combattenti, al fuoco dell’artiglieria: coraggiosi, certo.

Hanno soprattutto condiviso le attese, le pause, quello che viene prima del fuoco e quello che viene dopo, l’allarme, la paura, la sfida, il ricordo, la vendetta, la rassegnazione. La fierezza. 

Chi va nelle guerre a proprio rischio, ma con un biglietto di ritorno in tasca, può farsi testimone, oppure può mettersi dietro la camera, dietro il taccuino, e dare la parola e i gesti ai testimoni. Mannocchi, a più di due anni di distanza, e va tra Israele e Cisgiordania, ha montato (con Daniela Mustica, e la musica di Jacopo Incani; l’ha prodotta, con La7, Fandango) un racconto che faccia pensare più che venirti addosso come nella cronaca.

“Un uomo camminava da solo lungo le rotaie della ferrovia, mi ha visto con la telecamera in mano, io non parlavo la sua lingua, lui non parlava la mia. L’unica lingua comune erano i gesti. Mi ha indicato prima un edificio giallo, poi uno scantinato: sono entrata. C’era il corpo di un ragazzo ucciso da un colpo di arma da fuoco alla tempia. L’uomo ha infilato le mani nelle tasche della giacca e ripreso la strada lungo le rotaie”.

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