di Aldo Garzia
Una confessione come premessa.
Nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 – quello promosso da Matteo Renzi – votai “sì” con qualche titubanza. Non mi convinsero le argomentazioni che a sinistra parlavano di minacce alla democrazia e di un quasi golpe istituzionale per via referendaria.
Mi parevano ottimi obiettivi invece superare il bicameralismo paritario con l’abolizione del Senato, ottenere l’estinzione di un carrozzone come il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), correggere la brutta riforma del Titolo V della Costituzione voluta nel 2001 dal governo di centrosinistra che dava eccessi di potere alle Regioni. Certo, su vari punti della riforma non ero convinto ma quest’ultimi mi sembravano secondari. Centrale era il tema del possibile monocameralismo, antico cavallo di battaglia dei comunisti italiani a iniziare da Pietro Ingrao.
A quattro anni di distanza continuo a dare un giudizio non esaltante sul risultato di quel referendum. Il 60 per cento di “no” non mi parve affatto una squillante vittoria della sinistra e della democrazia.
Quel voto mi sembrò invece contrassegnato essenzialmente dal “conservatorismo” che unì in quell’occasione la maggioranza della sinistra e della destra. Fu un voto contro il cambiamento, sic et simpliciter. E contro Renzi che sbagliò a personalizzare oltremodo il voto.
Per quanto riguarda il referendum del 20 e 21 settembre sul taglio di deputati e senatori, non ho tentennamenti: voterò “no”.
E’ una riforma nata sull’onda lunga dell’antipolitica che nell’ultimo decennio ha fatto la fortuna del Movimento 5 Stelle. La motivazione sul “risparmio dei costi della politica” mi sembra debolissima. Questo taglieggiare senza una riforma istituzionale più complessiva è peggiore del male che si denuncia.
L’unica motivazione che può far pensare al “sì” è quella di Pier Luigi Bersani, Articolo Uno, da cui pure dissento: non creare ulteriori problemi al governo usandone le potenzialità positive in materia di riforme … leggi tutto