L’attivismo è l’ultimo rifugio delle buone canaglie (linkiesta.it)

di

L’avvelenata

Di lotta di classe e di cuoricini

Nel secolo in cui la ricchezza degli altri è diventata un nostro problema, quelli che se ne lamentano sono diventati i nuovi riferimenti culturali e politici. Da Milano a New York a Treviso si meritano un loro ordine professionale

Insomma, è stata una gran settimana per i buoni. Per i buoni per il diritto alla sanità garantita per tutti, per i buoni perché i maschi non ammazzino le femmine, per i buoni perché anche i poveri abbiano una casa. Tutta roba con cui è difficile essere in disaccordo, nonostante i buoni facciano di tutto per rendere insopportabili le buone cause.

Cominciamo da quelli di là, ché pensare che gli altri siano più scemi di noi è sempre consolatorio. Nel momento in cui scrivo questo articolo, il primo articolo sulla homepage del New York Times sul tema “uccisione di Brian Thompson” ha per titolo “Il costo crescente per le tutele degli amministratori delegati”: è un articolo su quante guardie del corpo devi mettere attorno al capo di un’azienda perché quelli che ha licenziato o la concorrenza aziendale o chissà chi non lo ammazzino.

È un articolo sui soldi, che sono il gran nodo della sanità americana. Non solo nel senso «se sei povero non puoi curarti», anche in quello «un settore in cui non girano soldi è un settore in cui non si fa ricerca, non si progredisce, non si scopre niente». Chi s’interroga in modo non ideologico sulla sanità si domanda se sia meglio una sanità di livello mediobasso ma accessibile a tutti, o una in cui ci sono le più avanzate tecnologie e scoperte ma rischi di non potertele pagare.

Sono, quelli che s’interrogano in modo non ideologico, rarissimi. I più s’indignano, perché è più semplice e porta più consenso. Su Instagram viene condivisa tantissimo una tizia che ha come mestiere in bio “attivismo oncologico” (qualunque cosa significhi). La tizia è indignata perché il San Raffaele – ospedale privato milanese – ha fatto promuovere a dei personaggi pubblici un macchinario che ti fa una scansione di tutto il corpo per duemila e cinquecento euro.

Io vi giuro che prima di Instagram le classi sociali esistevano, e tu non potevi permetterti i golfini di Prada, io non potevo permettermi l’aereo privato, il mendicante all’angolo non poteva permettersi le tagliatelle al tartufo, e qualcuno poteva permettersi più cose e qualcuno meno e non era una dinamica sull’ingiustizia della quale passassimo le giornate a struggerci (specie in Italia, dove la Bastiglia non l’abbiamo mai presa).

Adesso, la ricchezza degli altri è diventata un nostro problema. O meglio: non lo è diventata – non passo certo le giornate a chiedermi perché Tizio possa permettersi lo scan da duemila e fischia euro, semmai a metter via gli spiccetti per permettermelo presto anch’io – ma è un tema con cui si prendono i cuoricini sui social.

In maniera tra l’altro confusissima: nel video che tutti condividono, l’attivista (vabbè) prima contesta l’utilità dell’esame giacché «i test efficaci, raccomandabili, sostenibili sono quelli offerti dal nostro sistema sanitario nazionale» (quindi quelli più all’avanguardia, non disponibili gratuitamente in una sanità in cui girano pochi soldi, sono esami che non vanno comunque fatti: l’ha detto Instagram); poi ci spiega che «se non c’è un’indicazione clinica, la loro efficacia relativa è molto ridotta» (cioè: se ti fai una tac perché sei ipocondriaco, la tac non vedrà il tumore che ti si sta sviluppando, a meno che il medico della mutua già non avesse una mezza idea che tu avessi un tumore – i macchinari sono sensibili alle intenzioni, si sa).

Poi ci dice che cosa ce lo facciamo a fare un esame del genere, considerato che ci sono patologie oncologiche che non possono essere prevenute (che è un po’ il mio stesso principio, mio e di Vasco Rossi: lasciamo stare, dai, non rifacciamo un letto ormai disfatto).

Poi ci spiega che non fumare costa meno e non è «sostenuto dalla società attuale» (ma se non fuma più nessuno, ma se non si può fumare da nessuna parte, nei ristoranti, negli alberghi, negli aeroporti, a casa mia). Io, che nella vita ho fatto più tac total body di quante sigarette abbia fumato, chissà come mi pongo nell’immaginario confuso della signora attivista.

Infine, la signora sostiene che «è inaccettabile» promuovere un esame da duemila e cinquecento euro quando «alcune persone non possono permettersi cure di lusso, altre si trovano ad affrontare lunghe liste di attesa». Signora, a me sembra che se chi se lo può permettere si paga un esame costoso privatamente magari non ci intasa la lista d’attesa per l’ecografia nell’ospedale pubblico e risolviamo due problemi, no?

Comunque, mentre la signora qui strologa, negli Stati Uniti uccidono Brian Thompson, capo d’un’assicurazione sanitaria, e improvvisamente tutti i buoni, tutti i giusti, tutti quelli di sinistra, tutti quelli che in questi casi di solito fanno la predica contro la diffusione delle armi da fuoco in quella terra di picchiatelli, tutti hanno o la reazione autobiografica in cui ci raccontano la volta che un’assicurazione ha reso loro la vita difficile (e quindi poi per forza t’ammazzano: te la sei cercata), o la reazione sarcastica tipo «io ho un alibi» (sempre sottinteso: hanno fatto bene ad ammazzarti, l’avrei fatto io ma a quell’ora son quasi sempre via).

Delle armi da fuoco, per una volta, non frega niente a nessuno.

Di qua, intanto, chi non era attivista oncologico era giurista, e s’indignava perché la sentenza di condanna all’ergastolo per la morte di Giulia Cecchettin non aveva le aggravanti di stalking e di crudeltà. Se leggo un altro «se non sono crudeli settantacinque coltellate allora cosaaaa» mi strappo gli occhi. A nessuno, ma proprio a nessuno, viene il dubbio che forse le aggravanti processuali non funzionino a sensibilità. Settantacinque coltellate sono crudeli. Ma giura. Quindi fin qui pensavi ci fossero omicidi non crudeli. Chissà quali. Forse quelli di chi lavora nelle assicurazioni sanitarie.

E poi c’era uno che moriva di freddo. Io a questa notizia non ci riesco a credere. A Treviso un signore cinquantatreenne muore di freddo dormendo in garage dopo che il proprietario dell’appartamento in cui stava ha cambiato la serratura, e già questo basterebbe: ma dove siamo, nella Londra di Dickens?

Nel satollo occidente che ha talmente risolto i problemi veri da crearne ogni giorno d’immaginari, da improvvisare invettive contro chi si fa la risonanza a pagamento, in questo nostro stesso universo uno muore di freddo perché non ha una casa?

Ma, poiché la vita è sceneggiatrice spericolata, il tizio che ha cambiato la serratura è, ricopio dal Corriere, «un attivista del centro sociale Django e dell’associazione Caminantes che si batte per il diritto alla casa» (chissà se si conoscono, con l’attivista oncologica: chissà se c’è un sindacato attivisti, un tesserino dell’ordine degli attivisti, chissà come compra le sigarette un attivista – ah no, non si può fumare).

«Appena una settimana fa, con altri compagni, era stato protagonista di un blitz di protesta in consiglio comunale nel quale si lamentava l’inadeguatezza delle politiche sociali del Comune per i soggetti più a rischio: “Basta sfratti, basta persone in strada” lo striscione esposto». Lo scrive sempre il Corriere, e io sento fortissima la mancanza di Mario Monicelli.

Certo che l’attivista, qualunque mestiere sia, sarà un porocristo anche lui, certo che il sindaco della Lega al quale il signore morto di freddo lasciava commenti su Facebook non è in grado di risolvere i problemi quanto non lo è quello di Bologna (una città dove si vede più gente che dorme per strada che a San Francisco), certo che i poveri sono una scocciatura, perché non solo non riusciamo a risolvere il problema ma li incrociamo pure per strada e ci tocca sentirci in colpa, e al massimo possiamo impegnarci a garantir loro che i ricchi si faranno le tac a pagamento senza fotografarsi.

Però leggo – su Treviso Today – che l’attivista antisfratti ora vuole «mettere a disposizione l’appartamento in cui viveva Magrin per progetti sociali e soggetti fragili in situazione di marginalità». Sono abbastanza sicura che, in quel manuale di sceneggiatura che sono i Vangeli, ci fosse una qualche parabola somigliante alla storia degli unici buoni che riusciamo a essere noialtri. Quelli cui piacciono idealmente i soggetti fragili, e poi quando ce ne troviamo uno di fronte lo lasciamo morire di freddo.

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