L’espressione “fisco amico” è utilizzata oggi dal Governo per caratterizzare tre ben distinti provvedimenti.
Ma mentre quelli sull’adempimento collaborativo e sul TCF tendono solo a rendere più efficiente il rapporto col Fisco, quello sul concordato preventivo si traduce nel favorire una categoria di contribuenti rispetto a tutte le altre.
Un’espressione usata un po’ a sproposito
La necessità di raccogliere un po’ di soldi con cui mitigare il peso dell’Irpef sul ceto medio (da 28 a 50mila euro) sta deflagrando nell’uso di parole portatrici di tutt’altri significati e strumentalizzate per la bisogna.
L’espressione chiave è “fisco amico”, dentro la quale vengono messi tre distinti provvedimenti: cooperative compliance (adempimento collaborativo), tax control framework (mappatura dei rischi fiscali), concordato preventivo biennale (non richiede traduzione). Si tratta di interventi diversi, pensati per una miglior gestione del sistema fiscale; è da vedere, però, se possono considerarsi frutto di un più comprensivo rapporto fra contribuente e fisco.
Cos’è la cooperative compliance
La cooperative compliance nasce nel Nord Europa con l’obiettivo specifico di ridurre i costi, per l’amministrazione finanziaria, degli accertamenti su grandi contribuenti. Sono, questi, lavori molto estesi che richiedono l’intervento di una larga massa di funzionari addetti e di specialisti di diversi settori, sia economici che informatici. I rendimenti, in termini di recupero di gettito, possono risultare anche significativi.
Ma l’esperienza insegna che, quando avvengono, l’oggetto è piuttosto ben circoscritto. Di qui l’opportunità di ridurre al minimo gli interventi di (dispersivo) carattere generale e concentrarsi sulle tematiche più “fruttuose”. La cooperative compliance – per il momento solo facoltativa – va, appunto, in questa direzione.
Contribuente-grande impresa (oggi con fatturato superiore a 750 milioni, ma che verranno ridotti fino a 100 milioni negli anni successivi) e fisco si accordano a che il contribuente fornisca un quadro sistematico dei punti potenzialmente discutibili nei propri comportamenti aziendali e l’amministrazione finanziaria si obbliga a designare un suo membro dedicato al monitoraggio di dette scelte aziendali per avallarle o far emergere una diversa visione.
Se le distanze restano, il contribuente può continuare per la sua strada. Deciderà il fisco se dare luogo a una contestazione formale, nell’intesa che l’eventuale esito negativo del contenzioso costerà poco al contribuente soccombente, vista la trasparenza che lo ha caratterizzato.
Il sistema avvantaggia entrambe le parti traducendosi in un minor costo dell’adempimento fiscale (ridotto impegno di entrambe le amministrazioni); accentua la sistematicità della reciproca conoscenza (che può valere anche ad altri fini); previene inutili o poco redditizi contenziosi; azzera, vista la trasparenza nei comportamenti, le sanzioni.
Richiede una particolare benevolenza del fisco verso il contribuente? Direi proprio di no, a meno che non si voglia scambiare per benevolenza una più appropriata valutazione della sua capacità contributiva.
A cosa serve il tax control framework
Il tax control framework, come strumentazione idonea a tenere sotto controllo la dinamica fiscale di un’impresa di medio grandi dimensioni, è richiesto per tutti i contribuenti che optano per la cooperative compliance. Ma a coloro che non possono (per ragioni di fatturato) o non vogliono (per scelte di politica aziendale) avvalersene viene offerto di beneficiare di alcune delle relative provvidenze (essenzialmente riduzioni sanzionatorie).
Comporta l’adozione di determinati comportamenti nella costruzione amministrativa dell’azione aziendale e va nella direzione di una più ordinata gestione, assai utile per le imprese che passano dalla dimensione medio piccola a quella medio grande. Vi è qui uno scambio di interesse fra contribuente e fisco.
L’uno si impegna a una maggiore trasparenza; l’altro prende atto dell’impegno e ne fa conseguire una riduzione nella sanzionabilità dell’eventuale errore. Esprime, questo atteggiamento, una benevolenza del fisco verso il contribuente? Direi proprio di no. È semplicemente una “win-win solution”.
Un patto che favorisce solo una parte
Il concordato preventivo biennale (Cpb), invece, non ha nulla a che spartire con i precedenti istituti. Mentre questi riguardano il solo metodo di gestione della variabile fiscale (da ambo le parti) senza intervenire sulla base imponibile o sull’imposta, il Cpb si presenta come misura di mero gettito.
Parte dalla constatazione di una certa difficoltà nell’accertamento di una determinata gamma di contribuenti (le partite Iva fino a 5,1 milioni di euro) ma, anziché potenziarne gli strumenti, offre un patto che può essere accettato soltanto con un guadagno sbilanciato da una parte sola. Si moltiplica, infatti, l’imponibile del 2023 per un certo coefficiente che tiene conto dei precedenti (indice di fedeltà del contribuente); gli si offre una nuova base imponibile per il biennio successivo; gli si applicano aliquote ad hoc sull’incremento di gettito.
Indipendentemente dal giudizio in sé sul Cpb, è la calibratura dei tre passaggi a fare la differenza. Con il primo, si ammettono al concordato preventivo biennale contribuenti con diversissime caratteristiche di fedeltà fiscale. E qui, già con l’ammissibilità, si sta forse esagerando (come si fa a prendere in considerazione contribuenti con voto Isa del tutto insufficiente?).
Ma si è certamente esagerato – quantomeno nel Cpb del biennio 2024-2025 – con i moltiplicatori che, già di per sé modestissimi, hanno visto un abbattimento del 50 per cento della base imponibile che ne risulta nel 2024, per spiegare pieno effetto solo nel 2025.
E si è ulteriormente esagerato nella fissazione di aliquote ad hoc per il reddito incrementale che ne deriva: 15 per cento per i più cattivi; 12 per cento per gli intermedi; 10 per cento per i più buoni. Insomma, a costoro non si applica neppure la misura standard del primo scaglione Irpef del 23 per cento. E si è più che esagerato nel consentire una pudica sanatoria (insomma: un condono) per gli anni precedenti al 2024, con le medesime vergognose aliquote da applicare sui modestissimi differenziali che, con la stessa meccanica, ne derivano.
E, nonostante tutto ciò, l’adesione al concordato preventivo è stata pari solo al 12 per cento dei soggetti ammessi. Questo sì, che è “fisco amico”. Peccato che lo sia a senso unico e solo verso una specifica categoria di contribuenti: amico di questi ma, purtroppo, nemico di tutti gli altri.