di Lorenzo Cremonesi
Costretto a scegliere tra la Siria e l’Ucraina,
Vladimir Putin ha optato per questa seconda.
Un dilemma che mette a nudo l’estrema debolezza del presidente russo: aspira a riportare il suo Paese ad essere una superpotenza capace di rivaleggiare alla pari con Stati Uniti e Cina, ma non è neppure in grado di combattere contemporaneamente su due fronti, di cui quello siriano era comunque debole. Risultato: i soldati russi scappano dalla loro storica roccaforte affacciata sul Mediterraneo.
La notizia viene accolta con soddisfazione a Kiev. «Assad è caduto. La sua sorte ricorda quella che è sempre stata e sempre sarà per le dittature che scommettono su Putin», commenta il ministro degli Esteri, Andriy Sybiha.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia, perché un dittatore ferito e messo all’angolo rischia di essere ancora più pericoloso di prima. Putin negli ultimi giorni non aveva uomini e mezzi da mandare in aiuto di Assad, come aveva invece generosamente fatto un decennio fa, letteralmente salvando l’alleato da una sorte che poteva essere simile a quella toccata a Gheddafi nel 2011, linciato dalle folle rabbiose delle primavere arabe.
Oggi è messo talmente male che necessita dei soldati nordcoreani per cercare di liberare l’enclave occupata dagli ucraini nella regione russa di Kursk. E, tuttavia, questa sarà una ragione in più a Mosca per spingere sull’acceleratore della guerra contro l’Ucraina.
«Putin debole non potrà che scommettere il tutto per tutto pur di continuare l’aggressione in modo ancora più violento», ripete Zelensky agli alleati con il doppio obbiettivo di ottenere più aiuti militari e allo stesso tempo ribadire che il dittatore russo può essere battuto con la forza per poi avviare i negoziati.
Non è per caso che Zelensky nel giorno della fuga di Assad parli pubblicamente delle perdite ucraine: 43.000 soldati morti e 370.000 feriti in 34 mesi di guerra. Il messaggio alla Nato è chiaro: noi abbiamo dato il nostro sangue, tocca a voi adesso garantire che questo sacrificio abbia senso.