di Stefano Montefiori
Nato 73 anni fa a Tangeri, in Marocco, è il protagonista della crisi del governo parigino insieme alla sua nemica storica Marine Le Pen.
Postino, giornalista, insegnante, come il Cyrano di Bergerac non rinuncerà mai «all’onore di essere un bersaglio»
E pensare che il nome Le Pen è da sempre lo spauracchio di Mélenchon. Quando il 21 aprile 2002 Jean-Marie Le Pen si piazzò davanti al socialista Lionel Jospin e arrivò inaspettatamente al duello finale contro Jacques Chirac, Mélenchon non la prese bene. Cadde in depressione, «piangevo di continuo, il corpo non ce la faceva più, non riuscivo a lavorare».
Ma quella fu l’occasione di una delle tante rinascite: Mélenchon smise di fumare, si dedicò all’agopuntura e alla pittura di paesaggi, e si dette una missione esistenziale e politica: battere Le Pen.
All’elezione presidenziale del 2012, la prima per entrambi, Mélenchon arriva quarto dietro all’erede del partito di estrema destra. Secondo tentativo nel 2017, ma anche stavolta Mélenchon non ce la fa: arriva terzo, dietro a Marine Le Pen che si qualifica al ballottaggio per soli 600 mila voti.
Terza corsa all’Eliseo nel 2022: stavolta le schede che lo separano da Le Pen sono appena 400 mila, ma bastano a tenerlo lontano dalla sfida decisiva secondo turno contro Macron.
Tutto separa Mélenchon dalla grande rivale diventata alleata contro Barnier: lui è nato nel 1951 a Tangeri, in Marocco, da un impiegato delle poste e un’insegnante entrambi originari dell’Algeria francese; lei nel 1968 nel sobborgo chic parigino di Neuilly-sur-Seine, e ha ereditato non solo il partito ma anche gli agi del padre Jean-Marie.
Capace di paurosi scatti di collera passati alla storia — come quando urlò «La repubblica sono io!» in faccia al poliziotto venuto a perquisire la sede del partito della France Insoumise —, e di molti sorrisi affettuosi, a 73 anni Mélenchon si comporta spesso come il nonno burbero che affascina i nipoti, ed è molto popolare tra i giovani.
La lotta contro le diseguaglianze, il sogno di un mondo meno spietato, l’idea della «creolizzazione», del miscuglio di etnie da contrapporre all’ossessione identitaria di Le Pen, hanno fatto di Mélenchon un politico seguito non solo tra i giovani ma anche nella regione dell’Île de France, quella di Parigi, la più ricca di Francia ma anche la più attraversata da tensioni tra centro e periferia, e tra maggioranza e minoranze etniche.
Nel corso dell’ultima campagna per le legislative le sue posizioni pro-Palestina ed estremamente critiche nei confronti di Israele, e la debolezza degli esponenti della France Insoumise nel condannare le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre, gli hanno provocato accuse di antisemitismo.
Nel corso di un comizio a Montpellier, qualche mese fa, è sbottato: «Basta! Ho combattuto l’antisemitismo tutta la vita, queste accuse sono una sciocchezza che serve solo a far votare per l’estrema destra. La lotta all’antisemitismo fa parte del programma del Nouveau Front Populaire, e per la prima volta è menzionata anche quella contro l’islamofobia», mostrando di tenere molto all’equivalenza tra i due fenomeni.
Mélenchon ha fama di tiranno umorale, divisivo e contestato anche nel suo stesso partito della France Insoumise, ma ormai cerca di farne un vanto: «Non cercate mai di piacere, non serve a niente. Cercano di fermarci in ogni modo, e oggi c’è anche François Hollande a chiedermi di stare zitto. Ma non basta che la buona società, fatta in gran parte di ignoranti, decida qual è lo stile giusto. Come dice il Cyrano di Bergerac, io non rinuncerò mai all’onore di essere un bersaglio».