“Davigo non deve rispondere di nulla, è riuscito a tutelare il segreto", sentenziò nella sua difesa preventiva il giornalista.
Da quel momento in poi la situazione dell’ex pm è precipitata, fino alla sentenza definitiva per una rivelazione del segreto “senza eguali precedenti”
“Da che punto guardi il mondo tutto dipende”, cantava il bardo. È così anche per certe sentenze. Nel caso del giudizio della Cassazione su Piercamillo Davigo, infatti, quasi tutti i media hanno deciso di titolare “Appello bis per Davigo”, ma avrebbero potuto titolare anche “Condanna definitiva per Davigo”. Vere entrambe le cose.
I giudici della Corte di cassazione, di cui anni fa Davigo fu presidente di sezione, hanno infatti dichiarato irrevocabile la condanna relativa alla rivelazione del segreto in concorso con il pm Paolo Storari (assolto, perché indotto in errore da Davigo) e hanno annullato con rinvio la condanna relativa alla successiva rivelazione dei verbali di Piero Amara sulla cosiddetta loggia Ungheria a vari consiglieri del Csm, alle sue collaboratrici amministrative e al politico del M5s Nicola Morra.
Ora quindi la Corte d’appello di Brescia dovrà rifare il processo per rideterminare la pena, pari a 15 mesi stabilita in primo e secondo grado, per la sola parte che riguarda la rivelazione a terzi. Si capirà se non è stato un reato rivelare il contenuto di verbali segreti ai consiglieri del Csm mentre lo è stato farlo con Morra, o se non è stato reato nei confronti di nessuno. Questo lo si scoprirà nell’appello bis.
È stato quindi accolto solo parzialmente il ricorso dei difensori di Davigo, Davide Steccanella e Franco Coppi, due avvocati di solida cultura garantista, che non sono riusciti a evitare la condanna definitiva all’ex presidente dell’Anm. E comunque hanno fatto un lavoro egregio, data la difficile posizione del loro assistito. Un lavoro sicuramente migliore di quello svolto dal primo difensore d’ufficio mediatico, Marco Travaglio.
Circa tre anni fa, a maggio 2021, quando lo scandalo era stato scoperchiato e l’allora ex pm di Mani pulite aveva praticamente confessato il reato in pubblico, facendo violenza alla sua indole giustizialista, il direttore del Fatto quotidiano fece in televisione la sua arringa difensiva preventiva. Di fronte a chi, come Alessandro Sallusti, sottolineava i profili penali della condotta di Davigo, Travaglio emise la sentenza: “Non solo Davigo non deve rispondere di nulla, e infatti è testimone e non è indagato, quindi figuriamoci arrestato. Ma Davigo ha tenuto un segreto ed è riuscito nello scopo difficilissimo in quel labirinto a tutelare il segreto nei confronti delle due persone che non lo dovevano sapere”.
Da quel momento in poi, probabilmente per sola coincidenza temporale, la situazione di Davigo è precipitata. Prima è stato indagato per rivelazione del segreto, poi è stato chiamato a risponderne in un processo con il rinvio a giudizio, successivamente ha ricevuto una condanna in primo grado, poco dopo confermata in Appello e, infine, diventata ora definitiva in Cassazione.
“Davigo è riuscito nello scopo difficilissimo di tutelare il segreto”, sentenziava Travaglio. Non solo Davigo è stato condannato proprio per rivelazione del segreto, ma per la più colossale rivelazione del segreto di cui si abbia memoria.
Secondo la sentenza dei giudici di Brescia, Davigo “si è determinato a una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell’effetto finale di una fuga di notizie senza eguali precedenti (corsivo dei giudici, ndr), già stigmatizzata dall’Autorità giudiziaria umbra”.
Per la sua prima causa da garantista, l’avvocato Travaglio ha scelto un caso disperato. Ma non vuol dire che lo spirito garantista non fosse quello giusto. Si spera che questo esordio infelice non lo rispinga verso il suo ottuso giustizialismo.