di Paolo Mieli
Vladimir Putin è convinto di poter ottenere
entro breve la testa di Volodymyr Zelensky.
E stavolta, complice un’Europa svogliata, può farcela.
Nei giorni di Natale ha scatenato il fuoco contro Kiev da cui sono stati abbattuti almeno venti droni e Kharkiv dove sono rimasti fortunatamente illesi sotto le bombe il nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas e il cardinale Konrad Krajewski (l’elemosiniere del papa) che erano lì a celebrare la messa.
Per queste bombe natalizie hanno protestato il presidente americano Joe Biden e il premier britannico Keir Starmer.
L’Europa s’è distratta.
Anzi. Proprio in queste ore il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov si è fatto beffe delle proposte occidentali di «cessate il fuoco». E, reduce da una ben esibita stretta di mano con Emmanuel Macron al G20 di Rio de Janeiro, ha rivelato che i francesi gli hanno «offerto» un «dialogo di pace senza il coinvolgimento di Kiev».
A metà novembre il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva chiamato al telefono Putin (è stato il primo leader occidentale a compiere un gesto del genere dopo due anni di nessun contatto) per poi fornire un resoconto poco credibile della conversazione: lui gli avrebbe chiesto di ritirare le truppe russe dall’Ucraina e il leader del Cremlino gli avrebbe risposto che non ci pensava nemmeno.
Tutto qui. Zelensky si è lamentato di quella stravagante iniziativa. Ma il nuovo segretario dell’Alleanza atlantica Mark Rutte ha rimproverato il primo ministro ucraino intimandogli di «smettere di criticare Scholz» dal momento che la Germania è seconda solo agli Stati Uniti nel sostegno militare a Kiev.
Contemporaneamente il Guardian ha pubblicato un sondaggio YouGov in cui è documentato Paese per Paese quanto in tutta Europa (eccezione fatta per Svezia e Danimarca) stia venendo meno la volontà di proseguire negli aiuti alla resistenza ucraina.
È a questo punto evidente cosa intendesse Putin quando ha chiesto, come precondizione per una trattativa di pace, che in Ucraina si tengano le elezioni politiche previste per l’aprile passato. Elezioni in un Paese che per un terzo è occupato da un esercito straniero?
E è altrettanto evidente che una parte non irrilevante del nostro continente sta dando non imprevedibili segni di cedimento. Un modo di spianare la strada a Donald Trump che, si presume, appena insediato il prossimo 20 gennaio si metterà immediatamente in sintonia con le richieste di Putin.
Il coraggio di decodificare il senso di quel che sta avvenendo, per di più facendolo proprio, lo ha avuto qualche giorno fa (il 21 dicembre) l’ex direttore dell’ Economist Bill Emmott che ha chiesto a Zelensky «un atto finale di eroismo». Cioè, di dimettersi. Zelensky, secondo Emmott, dovrebbe «annunciare il suo ritiro» permettendo all’Ucraina «di dimostrare quanto sia davvero una democrazia resiliente».
Poi, dopo aver riconosciuto che il primo ministro di Kiev «ha svolto un ruolo eroico» e «rimane ancora molto popolare», il celebre giornalista ha concluso così: «Nessuno può dubitare che Zelensky e la sua famiglia meritino una vacanza e di ritirarsi con onore».
Parole raggelanti, che non leggevamo da tempo immemorabile.
Tra i pochissimi che (pur senza chiamare in causa Emmott) ha reagito a quell’articolo c’è stato l’indomani, su Repubblica , Ezio Mauro. Se davvero si vuole una trattativa ragionevole per costruire una pace duratura «che non sia semplicemente la sanzione dell’ingiustizia», ha scritto Mauro, «bisogna oggi stesso, in questo momento, preoccuparsi di rafforzare la figura di Zelensky, con un sostegno internazionale che riequilibri nell’autorevolezza della leadership e nella dignità morale delle ragioni ucraine lo svantaggio militare sul campo».
È a tal punto evidente che la richiesta a Zelensky di un «atto finale di eroismo», atto che consisterebbe nel prendersi (lui e la sua famiglia) una «meritata vacanza», significa nient’altro che imporre all’Ucraina, dopo quasi tre anni di guerra, l’accoglimento della richiesta di Putin. L’ammissione che non c’è niente su cui trattare se non i termini di una resa.
Poi, come spesso si è fatto in casi del genere, si potrà tentare di nascondere il tutto dietro roboanti minacce per il futuro. Ma il senso di quel che sta accadendo è chiaro.
A Trump verrà spalancata la via per togliersi d’impaccio prima di essere costretto a gestire un’eredità come quella che lui lasciò a Biden in quel di Kabul. Per l’Europa sarà un’ennesima pagina, non tra le più onorevoli, della propria storia. Foriera oltretutto di ripercussioni ad oggi non tutte prevedibili.
E, probabilmente, di nuove guerre.