di Paolo Mieli
È ormai evidente che gli Stati Uniti si
accingono ad imporre all’Ucraina un
iniquo «accordo» con l’aggressore.
A dispetto della lodevole insistenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, del presidente della Conferenza episcopale Matteo Zuppi e di molti leader europei sul tema della «pace giusta», Donald Trump e Vladimir Putin lasciano intendere in tutti i modi possibili e all’unisono d’essere alla ricerca di un’intesa che preveda un trattamento punitivo per l’Ucraina.
Accompagnata da un’umiliazione, fin dove è possibile, dell’Europa tutta. Il messaggio subliminale (anzi, quasi esplicito) inviato da Washington a Zelensky e alle sue forze armate che ancora si battono palmo a palmo in regioni già formalmente annesse alla Russia, è che ogni sforzo è inutile.
E, per quel che riguarda gli europei, ostentatamente esclusi dal tavolo della trattativa, si lascia intendere che è da considerare implausibile un loro ruolo, in territorio ucraino, anche solo a difesa della «pace ingiusta» che prima o poi verrà imposta.
Si acconcino, gli europei, a parare semmai i prossimi colpi dei russi. Non tanto quelli da considerarsi inevitabili rivolti contro le indifese aree che un tempo appartennero all’Unione sovietica (in qualche caso interi Paesi). Quanto quelli indirizzati contro l’insieme degli Stati europei.
È infatti probabile che Mosca, con il consenso americano, vorrà testarne, uno per uno (nessuno escluso), la tenuta, la capacità di reazione nonché di difesa. E non solo in termini militari.
Quello di Putin è, non da oggi, un Paese destinato a vivere e sopravvivere esclusivamente in tempi di guerra. Soprattutto adesso che ha davanti a sé un quadriennio, quello trumpiano, in cui quasi ogni porta gli verrà spalancata e può aspirare a ripresentarsi agli occhi del mondo come la grande potenza che fu all’epoca di Stalin. Un’occasione davvero eccezionale.
Gli Stati Uniti si sottraggono all’improvviso ad ogni impegno preso dal 1945 in poi. Ottant’anni svaniti nel nulla, senza che si sia levata dal profondo dell’America un’argomentata voce di dissenso. Quantomeno su questo specifico tema. Un appuntamento angosciante che nessuno, qui in Europa, si aspettava. Quantomeno in forme così dirette e brutali.
Prevedibile che a questo punto l’Europa si dividerà: da una parte i Paesi confinanti con la Russia o quelli che godono di un’autentica tradizione e consapevolezza di sé; dall’altra gli appartenenti all’area latina, mediterranea che sanno benissimo cosa sono diventati e si mostrano, conseguentemente, più inclini ad occuparsi esclusivamente delle proprie cose, al disimpegno, alla mediazione, alla «pace». «Giusta» o «ingiusta» che sia.
L’impreparazione è tale che al momento l’Europa è sprovvista persino di analisi che le consentano di capire se esiste ancora una missione storica continentale e quale sia. Ci sono formule, come quella della «pace ingiusta», che non si ha nemmeno il coraggio di rendere esplicite tanto abbiamo introiettato e assimilato, dai tempi del profeta Isaia, il concetto che «non c’è pace senza giustizia».
Qui in Italia c’è qualcuno che osa, che, anche a costo di entrare in evidente contrasto con i moniti di Mattarella e Zuppi, dà segni di apertura alla formulazione proibita. L’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky nel corso di un’intervista (a Silvia Truzzi per il «Fatto Quotidiano») si è domandato: «Se non siamo in grado di garantire la pace giusta, saremmo disposti a fare la guerra, una guerra definitiva, con le bombe atomiche?».
Per quel che lo riguarda, lui ha risposto apertamente di no, anche a costo di passare per «pusillanime».
Prima di tutto, ha aggiunto Zagrebelsky, «viene la vita della gente comune e anche quella dei soldati». E «finché c’è vita, c’è speranza». Quindi: meglio una «pace ingiusta» (finalmente qualcuno che pronuncia quelle parole senza girarci intorno: «pace ingiusta») che una «morte giusta per tutti, innocenti compresi». Tanto più che una pace «per quanto ingiusta non preclude la possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia».
Per parte nostra, fatte salve le preoccupazioni umanitarie di Zagrebelsky, dubitiamo che quella «ingiusta» possa essere considerata un’autentica pace.
Sappiamo benissimo che anche le paci del passato contenevano dosi di ingiustizia (che tra l’altro hanno poi provocato ulteriori guerre). Ma la pace predatoria, ostentatamente punitiva nei confronti di chi si sta battendo da oltre tre anni e di chi, come l’Europa, su quella resistenza ha investito più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti, non offre alcun affidamento di stabilità.
Quanto alla «possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia», abbiamo paura che essa possa rivelarsi un auspicio di impossibile concretizzazione. O, peggio ancora, temiamo che questo «secondo tempo» ipotizzato da Zagrebelsky porti a disgregazioni e guerre più sanguinose ancora di quelle a cui stiamo assistendo.