Il grande freddo
Il commercio con gli Stati europei valeva per Mosca dieci volte quello con gli Stati Uniti. Tra restrizioni bancarie e filiere tecnologiche interrotte, Bruxelles può ancora danneggiare l’economia russa
Vladimir Putin lo sa bene: le guerre si combattono con i carri armati, ma si vincono con le valute forti. Figuriamoci le invasioni a metà, annunciate in pompa magna e mai completate, come quella russa in Ucraina.
E se oggi il rublo sogna di tornare forte, non è per una svolta sul campo, mai avvenuta vista l’eroica resistenza di Kyjiv, ma per un cambio di umore a Washington. Indispettito per non aver ottenuto la pace in ventiquattro ore, Donald Trump ha fretta di voltare pagina e passare ai prossimi dazi contro Europa, Canada e Cina. Cessate il fuoco in Ucraina, qualche parola di circostanza sulla sovranità violata, e poi via le sanzioni a Mosca.
Non tutte, non subito, ma abbastanza da far capire che l’era Biden è finita e con essa la rigidità morale dell’Occidente. La Russia ha già capito l’antifona: mentre i negoziati per la pace procedono a rilento, le imprese russe sono state invitate dal Cremlino a elencare, con ordine di priorità, le sanzioni che desiderano veder rimosse, come segnalato dall’Economist.
Chi pensa che sia tutto già deciso sottovaluta un dettaglio tutt’altro che secondario: l’Europa. Perché è vero che Washington ha i riflettori, ma è Bruxelles che tiene i rubinetti. È l’Unione europea che ha imposto le misure più capillari, più dure, più difficili da aggirare.
E se anche gli Stati Uniti allentassero la presa, senza una ritirata parallela degli Stati europei, la Russia resterebbe debilitata e costretta a rimanere un’economia di guerra per sopravvivere. Meno burro, ancora cannoni.
L’Unione europea viene sempre criticata come un nano politico, ma pochi descrivono l’altro lato della medaglia: è un gigante economico e anche da sola potrebbe impedire a Putin di tornare davvero al tavolo dell’economia globale. Basta guardare la dimensione delle sanzioni: dal 2022, gli Stati Uniti hanno imposto quasi seimilacinquecento misure restrittive contro la Russia.
Ma l’Unione europea ne ha adottate ancora di più, e di natura strutturale. Parliamo di sedici pacchetti di sanzioni dal valore di quarantotto miliardi di euro con misure restrittive contro duemilatrecento individui ed entità e il blocco delle importazioni russe per un valore di 91,2 miliardi di euro.
Non si tratta solo del congelamento dei beni di oligarchi e funzionari vicini al Cremlino. Molte di queste sanzioni colpiscono in profondità: l’energia, le armi, le banche, l’accesso alle tecnologie occidentali, i circuiti di pagamento in dollari. È su questo terreno che Putin vuole trattare. «Alcuni esperti di geopolitica ritengono che tutto questo non abbia molta importanza.
L’accesso alla tecnologia, alla valuta e alle reti di pagamento americane, dicono, è ciò che la Russia vuole davvero. Ma la nostra analisi suggerisce che ciò è sbagliato. Senza l’Europa al fianco, il commercio, l’accesso ai sistemi di pagamento e gli investimenti esteri della Russia rimarrebbero fortemente limitati», ricorda l’Economist.
Perché anche se Trump dovesse sciogliere parte delle restrizioni, le sanzioni americane non sono così rilevanti per la Russia. Gli scambi commerciali tra Washington e Mosca si erano già ridotti prima dell’invasione dell’Ucraina, e nel 2024 erano scesi del novanta per cento rispetto al 2021. Al massimo, potrebbero risalire di qualche decina di miliardi di dollari. Ben poca cosa. Al contrario, prima della guerra, il commercio tra Russia ed Europa valeva oltre trenta miliardi di dollari l’anno. Senza l’Europa, nessuna vera ripresa è possibile.
Nemmeno l’oro nero salva Putin. Il tetto al prezzo del petrolio, sostenuto dagli Stati Uniti e dal G7, ha avuto effetti meno incisivi del previsto: come ha raccontato Linkiesta la Russia ha trovato modo di aggirare le sanzioni occidentali con nuove navi, nuovi porti, e continua a esportare oltre 3,5 milioni di barili al giorno.
L’uscita degli Stati Uniti da questo schema non cambierebbe molto. Idem per il gas: anche se l’America togliesse il blocco al progetto Arctic LNG 2, i nuovi flussi non arriverebbero prima del 2026. E fu lo stesso Putin, nel 2022, a chiudere il principale gasdotto verso l’Europa. Ora vorrebbe riaprirlo, ma spetta a Bruxelles decidere se comprare.
Sul piano tecnologico, la Russia ha aggirato molti divieti importando attraverso la Cina o l’Asia Centrale. Ma ciò che le manca davvero – macchinari avanzati, componenti ad alto valore – era in gran parte made in Europe. E mentre le restrizioni americane potrebbero attenuarsi, quelle europee resterebbero decisive. Lo stesso vale per i pagamenti internazionali.
Anche se Washington rimuovesse i vincoli su Visa, Mastercard e sul circuito Swift, molti nodi cruciali rimarrebbero in mani europee. Swift ha sede in Belgio, gran parte degli asset congelati della Banca centrale russa – circa duecentosettantaquattro miliardi di euro – sono detenuti in banche europee. E gli istituti statunitensi, pur volendo, esiterebbero ad autorizzare operazioni con Mosca se rischiassero sanzioni da parte dell’Europa.
I regolatori europei potrebbero avvertire le banche estere: se una transazione legata alla Russia passa anche solo per Londra, Francoforte o Dublino, scatterà la responsabilità penale. Potrebbero vietare l’attracco alle petroliere che trasportano greggio russo. Potrebbero colpire i clienti di Mosca in Asia o Medio Oriente, minacciandoli di esclusione dal mercato unico. In teoria, l’Europa ha il potere di sabotare l’intera operazione di distensione. Se volesse. Le carte in mano ce le ha. Resta solo da capire se avrà il coraggio di giocarle.
Comunque finisca la guerra in Ucraina, il sogno russo di attrarre nuovi investimenti sembra lontano. Dopo il 2021, gli investimenti diretti esteri sono crollati del quarantatré per cento. Gli obbligazionisti stranieri sono spariti. E anche se la rielezione di Trump ha fatto salire il rublo, l’interesse dei capitali è ancora fragile.
Le industrie russe – trasporti, energia, logistica – avrebbero bisogno di decine di miliardi, ma pochi si fiderebbero di un paese che ha già espropriato asset stranieri e potrebbe farlo di nuovo. «Tutto questo», scrive The Economist, «per accedere a un’economia più piccola del Texas»