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Quando la tregua somiglia a una resa (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

S’invoca la tregua in Ucraina.

Nel suo romanzo «La tregua», Primo Levi la descrive come «una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale», la sospensione del proprio destino in attesa di ricominciare una vita «normale». La tregua non risolve un conflitto, è solo un senso di requie e di speranza.

Ma quale speranza s’intravede nei negoziati fra Trump e Putin? Più che una tregua sembra una resa. In Italia viviamo in pace da 80 anni e forse non riconosciamo più il senso profondo di alcune parole: c’è una grande differenza fra tregua e resa. Resa significa cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico, significa arrendersi, perdere qualcosa (la propria terra, la propria identità).

Parentesi nel conflitto o una speranza di cessate il fuoco?

Ma resa ha un significato ancora più vertiginoso quando diventa resa dei conti, il momento in cui ognuno dovrebbe affrontare le proprie responsabilità. L’odio di Trump per l’Europa rischia di rompere un’alleanza che non è solo militare o economica, ma espressione di una lunga visione condivisa della Storia e del mondo.

È la rinuncia incondizionata ai valori dell’Occidente, al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, allo stato di diritto, alla sovranità nazionale, alle democrazie liberali.

Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere «patetici parassiti» devono scongiurare con fermezza la resa.

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