Gli ultimi due Comuni sciolti per mafia, all’inizio di agosto, sono calabresi: Cutro e Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Dieci giorni prima era stata la volta di Partinico, in Sicilia. Dall’inizio dell’anno sono già 9 le amministrazioni comunali mandate a casa (tra cui quella di Saint-Pierre, la prima in Valle d’Aosta), undici in cui la gestione dei commissari è stata prorogata. In quasi trent’anni, da quando nel 1991 è stata introdotta la legge sull’onda dell’emozione per il macabro omicidio di un innocente, il salumiere Giuseppe Grimaldi a Taurianova, sono stati 349 i decreti di scioglimento e 216 quelli di proroga.
Quando scatta il decreto
Sciogliere un Comune, mandare a casa gli eletti dal popolo, è una misura estrema, un decreto firmato dal Capo dello Stato solo quando emergono collegamenti «concreti, univoci e rilevanti» tra la criminalità e gli amministratori locali. La finalità è soprattutto preventiva, non sanzionatoria.
Qualora si sospetti che i clan influenzino gli atti di un ente pubblico, il Viminale nomina una commissione d’indagine che ha tre mesi (più tre di proroga) per consegnare una relazione al prefetto. Se reputa che ci siano i presupposti, il prefetto trasmette le carte al ministero dell’Interno che propone a Palazzo Chigi lo scioglimento. In tal caso, viene nominata una commissione straordinaria di tre membri che si insedia e guida il Comune dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 in casi eccezionali.
Dopodiché si tengono nuove elezioni. Un iter lungo e complesso che finora ha toccato ben 263 enti, compresi un capoluogo di provincia (Reggio Calabria) e sei aziende ospedaliere … leggi tutto