E’ ancora un neonato che sconta i peccati di questo mondo ma non toglie il rimorso dalle coscienze.
Youssef, questo era il suo nome, aveva sei mesi e stava fuggendo dalla paura, dalla fame, dalla guerra e dall’oppressione senza sapere esattamente perché e ha pagato il prezzo più alto. E’ annegato insieme ad altre cinque persone al largo della Libia, il paese che ci dovrebbe aiutare nelle politiche sull’immigrazione, con cui firmiamo patti e al quale inviamo milioni di euro per uno scopo che non è stato raggiunto e chissà se raggiungeremo mai.
Youssef dal basso dei suoi pochi mesi di vita ci ha distratto per una manciata di ore dal pallottoliere dei contagi da covid 19, dalle polemiche sulle mascherine, dal negazionismo bieco. E ci ha obbligati a guardare, di nuovo, il Mediterraneo. C’è chi lo ha fatto con i soliti occhi. La componente politica da sempre contraria all’accoglienza ha addossato la colpa di questa tragedia ai “porti aperti” eppure quel bambino in un porto non ci è mai arrivato.
Il parroco di Lampedusa, l’isola in cui il corpicino è stato portato per la sepoltura, ha scritto su Facebook ciò che tanti hanno soltanto pensato: “Noi oggi siamo la tua famiglia. Ci vediamo in cielo dove saremo bambini per sempre”.
Nel salvataggio del gruppo di naufraghi di cui faceva parte anche Youssef e la sua mamma è intervenuta la Ong spagnola Open Arms e gli uomini dell’equipaggio hanno raccontato che la morte del piccolo e delle altre cinque persone è dovuta al ritardo nell’intervento delle autorità europee che erano state sollecitate perché si prendessero subito carico dei sopravvissuti … leggi tutto