di Goffredo Parise
Mi sono preso tempo fa la briga di fare una piccola inchiesta sui nord-africani a Parigi (algerini, marocchini) e mi son reso conto immediatamente quale gatta da pelare si sian presi i francesi con questa specie di importazione coloniale; e in quali legittime preoccupazioni si trovino questi disgraziati datori di lavoro parigini, trovandosi davanti ogni giorno uno di questi curiosi tipi, con un grosso fagotto sotto il braccio e magari qualche moglie alle calcagna.
Una sera ho voluto visitare io stesso il quartiere arabo: visitare, è una parola, sarebbe molto meglio dire penetrare. Erano le nove, c’era buio, pioveva, lo chauffeur del tassì mi conduceva di pessima voglia, verso quella estrema banlieue di Parigi che si chiama Genevilliers, sbagliando più volte strada e brontolando contro la pioggia che cadeva fitta.
Genevilliers è una specie di grande paese, per lo più costituito di enormi fabbriche di prodotti chimici, fantomatiche costruzioni che si alzano oltre gli argini della Senna in un groviglio di gru, argani e fumaioli. Inoltratomi da solo in questo labirinto, limitato da altissimi muri ciechi, dove la pioggia scendeva insieme con le scorie degli sfiatatoi e gli acidi dei comignoli, son riuscito, credo grazie a un mio fiuto particolare, a trovare la rue Paul-Vaillant-Couturier.
È una di quelle vie strette e sudicie della banlieue parigina, segnata da muri di mattoni o da steccati. Dall’alto, come filtranti dal cielo carico di pioggia, spiragli di luce azzurrina illuminavano appena la strada; la fabbrica da cui uscivano quelle luci era avvolta nel buio, ma doveva essere altissima … leggi tutto