di Dario Di Vico
Forse la cosa più giusta a questo punto sarebbe cambiargli nome.
Dopo che il papà del Reddito di cittadinanza, Luigi Di Maio, ha pubblicato sul Foglio una corposa autocritica sul provvedimento-bandiera del Movimento Cinque Stelle («credo che sia opportuno ripensare alcuni meccanismi») possiamo dire che il figliolo non esiste più.
Perlomeno con i connotati descritti a suo tempo. E allora varrebbe la pena abbandonare anche quella pomposa citazione che rimanda alla Rivoluzione francese. E accettare che si chiami reddito minimo, come quasi tutti gli altri fratelli sparsi per il mondo. Al momento del suo concepimento le teste d’uovo grilline vollero che il Reddito avesse due obiettivi, la lotta all’indigenza e l’attivazione sul mercato del lavoro.
Dietro c’era l’idea di riscrivere il welfare socialdemocratico spianando la strada dell’occupazione all’intero popolo della povertà relativa, all’incirca il 15% degli italiani. La mancanza di lavoro era infatti vista come la principale causa della povertà non cogliendo come la Grande Crisi del 2008-15 avesse cambiato le carte in tavola con l’avanzata della figura dei working poor, stipendiati che non riescono ad arrivare alla famosa quarta settimana … leggi tutto