“Era proprio la scuola il covo del razzismo e del pregiudizio, creava forti shock psicologici in noi bambini sinti non solo perché ricevevamo un’educazione diversa dalla nostra famiglia, ma anche perché a scuola si diventava diversi.
A scuola, purtroppo, non eri più un sinto ma diventavi uno zingaro dal quale era meglio stare alla larga”.
Queste parole fanno parte dell’intervista che la ricercatrice di origine sinti Eva Rizzin fece a sua madre, Susy Reinhardt, cresciuta negli anni settanta del novecento in una classe speciale per “zingari e nomadi”.
Di rom e sinti si parla solo per mostrare quanto siano paradossali ed estreme alcune situazioni di disagio: sono di questi giorni le notizie della bambina di quattro anni che a Torino non può usare il pulmino scolastico perché non ha una residenza e del possibile sgombero del campo di Castel Romano, poi sospeso. Molto meno evidenti sono i processi di lungo corso. Per esempio la storia della scolarizzazione dei bambini rom e sinti in Italia, che ha una dolorosa continuità ed è legata alle classi speciali.
Qualche anno fa la prima superiore di un istituto comprensivo di Pescara fu “riservata” solo ai rom; erano i figli delle famiglie rom abruzzesi presenti in quell’area da secoli. La dirigente scolastica, chiamata in causa per motivare la costruzione di una classe su base etnica, presentò quella scelta come l’inizio di un “processo didattico innovativo”.
Ma si può considerare la creazione di una classe differenziale come un progetto innovativo, oppure la storia della scuola italiana ha già mostrato quali sono i risultati di concepire come speciale l’educazione dei rom e dei sinti? … leggi tutto