Nedo Fiano era un bell’uomo. Alto, con una faccia da chansonnier, brillante.
Quando raccontava l’inferno che aveva vissuto ad Auschwitz alternava momenti commoventi a momenti di leggerezza, quella leggerezza che si possono permettere solo i sopravvissuti. E’ uno dei segreti della mente umana, un click che permette a chi ha vissuto situazioni simili di superarle, di ricominciare, addirittura di raccontarle.
Molti anni fa lo invitammo a Radio Popolare. Arrivò a passo svelto, ci salutò e ancor prima di entrare nello studio di trasmissione tirò fuori dalla sua borsa di pelle un fagotto grigio e marrone. Con una stella cucita sul cuore. Era la sua divisa di Auschwitz. Ci invitò a toccarla, a soppesarla. Con sacro rispetto notammo che era una specie di flanella ruvida. Ci vennero i brividi. Anche di freddo, pensando che quella era tutto ciò che potevano indossare, anche nel gelido inverno polacco. Ci scherzò sopra: “vedete quanto ero più magro?”.
E con questo sorriso entrò in trasmissione.
Nedo Fiano era un fantastico affabulatore: conquistava i ragazzi che incontrava nelle scuole, li teneva incollati alla seggiola, usava teatralmente le pause, dosava le descrizioni agghiaccianti con scenette quasi da vita quotidiana.
Non era la banalizzazione della tragedia, era esattamente il suo opposto: ai sopravvissuti rimane il compito di testimoniare e la testimonianza non ha niente di eroico, è un viaggio nella necropoli – nel senso che ne dà Boris Pahor – che comprende orribili torture, desideri di fuga, spidocchiamenti, amicizia, puzza, furbizie … leggi tutto