di Paola Caridi
Di colpo, come succede con le cifre tonde, si parla di nuovo di “risveglio arabo”, a dieci anni dall’autoimmolazione di Mohammed Bouazizi, il giovane ambulante di Sidi Bouzid vessato dalla polizia tunisina.
Il suo gesto estremo fu la miccia di una rivoluzione passata ormai alla storia come la prima, quella che diede la stura a movimenti di protesta (e di proposta) in tutto il mondo arabo.
Succede, però, che anche stavolta, come spesso durante quello che a pieno titolo può ora definirsi il decennio delle rivoluzioni arabe, si debbano leggere o ascoltare definizioni superficiali o apodittiche che trasformano la “primavera araba” – definizione tutta occidentale – in un “autunno-inverno arabo”, come se stessimo a parlare di moda. O di mode.
Il problema è che – ed è comprensibile – proviamo a capire quello che succede nell’Altrove usando i nostri metri. E’ per questo che possiamo passare da un mese all’altro dall”euforia per la primavera araba alla delusione per l’inverno che è sopravvenuto. Non è però così. Non è successo così. Gli attori in gioco sono troppi per poter analizzare quello che sta succedendo in un’intera regione come se stessimo parlando di un duello tra due contendenti armati di spada.
Il tempo della Storia non è quello che coincide con il tempo individuale, con la durata di una vita o di una generazione. Occorre attendere. Osservare. Occorre aspettare per comprendere cos’è stata nel 2011 la rivoluzione tunisina, e poi quella egiziana, e le sollevazioni in Yemen, Bahrein. Siria, Libia, Marocco. E, successivamente nel 2019, i movimenti di piazza in Algeria, Sudan, Iraq, Libano.
Attendere e non essere impazienti. Perché l’impazienza ha dato luogo ad analisi come quelle che dicevano: basta, è stata solo una fiammata, una rivolta chiusa all’interno dei confini di ogni singolo Stato arabo, conclusa con una controrivoluzione e il consolidamento del cosiddetto “deep State”. In Egitto … leggi tutto