Neppure una riga, nel riassunto, per il programma Erasmus, che ha interessato finora dieci milioni di studenti europei, dal quale il Regno Unito uscirà.
Decisione difficile, ha detto Boris Johnson. Decisione grave, aggiungiamo noi
Giornata britannica, ieri. Per motivi anagrafici, ho ascoltato più volte «When I’m Sixty Four» dei Beatles, poi ho letto il riassunto (35 pagine) dell’accordo di cooperazione tra Unione europea e Regno Unito (1.200 pagine). Ho scelto la versione del governo britannico, per capire se avrei ritrovato il realismo mostrato in extremis o il profumo delle illusioni che hanno portato a Brexit. Non sorprendentemente, ho trovato un po’ del primo e parecchio del secondo.
Nel prologo, firmato da Boris Johnson, si parla (per fortuna) della Gran Bretagna come di «una nazione orgogliosamente europea», ma poi si annuncia la Global Britain (sic) e si dice (purtroppo) che l’accordo segna «la completa riconquista dell’indipendenza nazionale». Battuta buona per un comizio, ma un modo poco elegante per liquidare un’impresa storica come l’Unione europea, cui il Regno Unito ha fornito il proprio importante contributo dal 1973.
Sia chiaro: l’accordo di Natale è il male minore, ed era inevitabile. Ma il riassunto britannico, in 190 punti, tende a glissare sulle questioni dove non s’è trovata un’intesa (i servizi finanziari, per esempio). E sulla parità di condizioni (level playing field) si legge: «…le parti avranno il proprio sistema di controllo dei sussidi e nessuno dovrà seguire le regole dell’altro».
Faccenda delicata. La Ue teme infatti che Londra possa adottare regole meno severe per le proprie aziende (in campo ambientale, ad esempio), creando una distorsione nella concorrenza. Il meccanismo di arbitrato previsto nell’accordo non rimarrà inattivo, con ogni probabilità … leggi tutto