L’anguille di Bolsena e la vernaccia (treccani.it)

Percorsi di cose e parole nella lingua 
del cibo

La lingua del cibo fra tradizione e innovazione

Siamo immersi nella lingua del cibo: non solo le librerie hanno fra gli scaffali da sempre più frequentati quelli dedicati alla cucina e all’enogastronomia, non solo i quotidiani più diffusi pubblicano inserti e supplementi (per altro improvvidamente chiamati FoodCook), che si affiancano a riviste dalla tradizione illustre, come La cucina italiana, ma i canali di comunicazione sociale, a qualunque livello, abbondano di ricette, esecuzioni, creazioni culinarie più o meno probabili, più o meno fantasiose, presentate con toni ora rustico-casarecci, ora molto affettati e presuntamente modaioli.

La centralità del cibo, le sue intersezioni con i piani della cultura, della tradizione, dell’innovazione, della moda, le sue interrelazioni con le questioni dell’economia e della tecnologia, fanno sì che il discorso sulla lingua (di preferenza parlerei appunto di lingua del cibo, come possibile iperonimo capace di raccogliere sia la componente degli alimenti sia quella della loro trasformazione culinaria e dell’esito gastronomico) non sia mai neutro, ma caricato di valenze identitarie, di facili tendenze esterofile, di tangenze con la politica del mercato internazionale.

Parlare di lingua del cibo significa dunque tentare di raccogliere sotto un’etichetta passabilmente riconoscibile un insieme largo e vario di realtà; e significa anche affrontare questioni di tipo specificamente linguistico, a cominciare dalla connotazione di questo come linguaggio specialistico.

Non pare possibile equiparare in maniera diretta il linguaggio del cibo a quello della burocrazia, o della politica, o della scienza, o dell’economia, la cui qualifica specialistica, o ‘settoriale’, è ormai da tempo concordemente riconosciuta … leggi tutto

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