Un anno su Dante Alighieri si sta srotolando come un tappeto di Samarcanda dinanzi a noi.
Un tappeto variopinto, in alcuni punti ancora perfetto nel proprio ordito e nella sua trama, in altri corroso, divorato dalle tarme dell’approssimazione, della banalità e dell’arrogante, supponente ignoranza.
Dante degli Alighieri, misterioso ancora oggi, troppo sfuggente come argento vivo al calore del fuoco, per essere descritto, contenuto e limitato e da troppi dunque incompreso, a cominciare dai suoi contemporanei e dai suoi commentatori. E allora non mi resta che non parlare di Dante, del cavaliere e del poeta, men che meno del politico guelfo di parte bianca, ma di quell’uomo immaginato, sognato e dipinto, e forse proprio per questo più profondamente conosciuto, da parte di uno che portando il suo stesso nome in dote e in dono, lo racconta ancora oggi a noi, che lo guardiamo e cerchiamo di fare, con la fantasia, “ali al folle volo”.
Lasceremo quindi volutamente in disparte, le note mistagogiche di René Guénon, di Julius Evola, di Gabriele Rossetti, di Giovanni Papini e financo del meno noto, ma non meno dotto, Silvano Panunzio sul “ghibellin fuggiasco”, per dedicarci invece interamente, anche se non con tutta la necessaria estensione che merita, all’opera artistica di Dante Gabriel Rossetti, che ha come perno transumanante il poeta fiorentino.
Dante Gabriel Rossetti ci offre innanzitutto un’indicazione fondamentale per comprendere “il velame de li versi strani”, e cioè ci ricorda in ogni sua immagine dipinta che l’Alighieri è uomo del Medio Evo, di quell’età di mezzo nel momento più alto del proprio fulgore e che, come tale, è un mondo composto di simboli. Senza saper leggere, interpretare e comprendere il simbolo, non è possibile capire Dante … leggi tutto