Caro Direttore, il Suo giornale mi ha coinvolto in un bel dibattito grazie all'articolo del professor Massimo Recalcati "Perché difendo Matteo Renzi" cui ha replicato con accenti molto critici Sergio Staino.
Vorrei ringraziare per l’attenzione provando tuttavia a spostare il dibattito dalla mia persona alla situazione politica.
Non mi sfugge che il punto di partenza di Recalcati sia infatti incentrato sull’ostilità contro di me, come persona prima ancora che come politico: “Quando i giudizi si compattano in modo così conformistico contro qualcuno, uno psicoanalista, abituato a diffidare da ogni forma di pensiero unico, non può non interessarsene” scrive il professore. Né che larga parte delle critiche che Staino formula nascano da delusioni personali, a cominciare dalla triste esperienza di Sergio alla direzione de “L’Unità”. Ma la profondità del pensiero di Recalcati chiama in causa non già una sola persona quanto una sfida più ampia. Cito testualmente: “Il livore antirenziano segnala come ripeto da tempo un problema storico del centro-sinistra assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi.
In gioco è l’identità stessa del Pd, di ereditare autenticamente la propria storia, della sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo.” Parliamo di questo allora: come si caratterizza oggi una comunità politica riformista? Qual è l’identità di chi pur condividendo le critiche da noi mosse al Governo uscente non ha avuto il coraggio di essere conseguente? E perché il PD ha rinunciato a giocare un ruolo da protagonista rifugiandosi in un “O Conte o voto”, slogan tanto assurdo quanto velleitario?
Di questo dobbiamo discutere. E la conclusione della crisi di Governo ci aiuta nel cogliere il disagio del gruppo dirigente della sinistra davanti alle sfide della contemporaneità. Ma anche la difficoltà di rilanciare l’eredità del proprio patrimonio valoriale, concetto molto caro ai lettori di Recalcati. La sinistra di oggi – quella che si riconosce nel neonato fronte Pd, Cinque Stelle, Leu- ha scelto come proprio leader senza il passaggio delle primarie. Ha incoronato Conte non con una consultazione tra i militanti ma definendolo sui media “il più popolare” trasferendo la legittimazione dai gazebo ai sondaggi.
Questa svolta, strutturale, parte dall’assurdo presupposto per il quale al populismo si risponde con la popolarità, mentre invece per quelli come me al populismo si può rispondere solo con la Politica, con la p maiuscola. E poco importa se quel leader – Giuseppe Conte – sia stato il leader che ha firmato i decreti Salvini sull’immigrazione, che ha affermato il Sovranismo davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, che si è posto in scia di Trump alla Casa Bianca, che si è detto populista davanti ai giovani della scuola di formazione della Lega, che ha equiparato il garantismo al giustizialismo. Non importa ciò che uno ha detto o fatto, secondo questa visione del sondaggismo esasperato: conta essere il più popolare, quello con più like, quello con più followers. E per non parlare di politica si gioca la carta del carattere, dell’antipatia, dell’essere divisivo … leggi tutto