Giorgio Agamben ha concluso ormai da sette anni il suo progetto Homo sacer, dedicando la parte finale di esso – gli ultimi due volumi – al tema della forma di vita.
Non poche delle opere pubblicate dopo la fine di quel progetto possono però essere lette in continuità con le idee con cui si chiudeva l’ultimo volume della serie, L’uso dei corpi (2014): qui, infatti, il filosofo romano ragionava sul concetto di forma-di-vita come alternativa alle dicotomie concettuali – zoe/bios; teologia politica/teologia economica; oikos/polis, ecc. – che avevano caratterizzato la macchina ontologico-politica occidentale lungo tutta la sua storia.
Tale concetto era stato pensato come alternativa alla – e al contempo come punto di impasse della – “macchina antropologica” del pensiero occidentale che, per Agamben, fondamentalmente, consiste nella creazione, sempre nuova e sempre generata da dispositivi di potere, di coppie concettuali oppositive, che creano a loro volta, tramite i reciproci rapporti, delle zone grigie di esclusione e di inclusione.
La forma-di-vita, per Agamben, non funziona così: essa è una vita che si dà esaurendosi nel suo stesso vivere, senza scarti. Per questo una teoria delle forme-di-vita non può tanto essere dimostrata, quanto, piuttosto, mostrata: come si mostra un quadro, la vita di un animale, o un paesaggio.
In questo senso sono interpretabili molti degli ultimi libri di Agamben: da quello su Pulcinella (2015) a quello su Majorana (2016), dalla sua autobiografia (2017) fino ad arrivare al suo ultimo lavoro, La follia di Hölderlin (Einaudi 2021).
L’ultimo libro di Agamben, fin dal sottotitolo, si presenta come una “cronaca”: un genere letterario specifico, antico, in cui eventi e aneddoti si susseguono in elenco, affastellandosi, creando un mosaico il cui senso è dato solo dall’osservazione del quadro di insieme, e non da un criterio logico o espositivo scelto a priori.
La struttura del libro, così, assume uno svolgimento cronologico, mostrando, tramite una selezione di testimonianze di contemporanei, di lettere di e a Höderlin, ma anche attraverso una contestualizzazione della vita del poeta nella situazione geopolitica e storico-culturale della sua epoca, quella che Agamben definisce una “vita abitante”.
La vita di Hölderlin viene indagata, anno per anno, partendo da un assunto fondamentale:
“Il problema non è di accertare se Hölderlin fosse o non fosse pazzo. E nemmeno se egli abbia o meno creduto di esserlo. Decisivo è, infatti, che ha voluto esserlo o, piuttosto, che la follia gli sia apparsa a un certo punto come una necessità, come qualcosa a cui non poteva sottrarsi” (p. 21). Malgrado la vulgata biografica, così come la generale opinione dei contemporanei, tenda a dare per assodata la patologia mentale del grande poeta tedesco, il libro di Agamben, piuttosto, si propone di esporne la coerenza in quanto forma-di-vita, una coerenza che la lettura patologizzante non coglie né può cogliere … leggi tutto