Intervista a Sergio Bologna
La conclusione della crisi di Suez con la ripresa dei flussi marittimi non significa necessariamente il ritorno al business as usual, come si affrettano a cantare gli osservatori economici mondiali. Come nelle crisi finanziarie e in quelle ecologiche e pandemiche, si è trattato di un preciso segnale di fallimento del mercato e del necessario ripensamento del modello di trasporti mondiali delle merci sin qui invalso (gigantismo navale, importazione dall’Asia di gran parte dei prodotti, anche quelli essenziali e strategici, perdita di capacità produttiva dei sistemi locali in agricoltura e nell’industria, danni all’ambiente e inquinamento) i cui costi ambientali, sociali ed economici sono crescenti.
Sulla crisi del trasporto marittimo mondiale di questi giorni abbiamo intervistato Sergio Bologna (Trieste 1937), storico, germanista, traduttore di L’anima e le forme di G. Lukács, studioso del nuovo lavoro autonomo, e uno dei maggiori esperti italiani di logistica e trasporti marittimi che su questi temi ha scritto Le multinazionali del mare (2010).
1. La crisi delle forniture mondiali di merci causata dall’incidente occorso alla Ever Given è un episodio eclatante: è un fatto isolato, o mette in luce una criticità nel sistema mondiale della logistica marittima? Quali sono i costi ambientali, oltre che economici e sociali, dell’attuale sistema? Chi sono i vincitori e chi sono i perdenti?
È necessario iniziare dalla situazione che si era determinata dopo la crisi del 2008/9. Sorsero allora i primi dubbi sul modello della globalizzazione, non tanto sui processi di delocalizzazione quanto sulla sostenibilità delle catene di fornitura (le supply chain). Fu messo in questione il procedimento per cui se hai bisogno di un fornitore lanci un bando internazionale e se ritieni che l’offerta di un’azienda localizzata in Patagonia sia migliore di quella di un’azienda dietro l’angolo di casa scegli la Patagonia.
Naturalmente non tutte le filiere reagirono allo stesso modo, la filiera dell’auto aveva già saputo suddividere i fornitori per cerchi concentrici, per strati, per tier, quelli di primo livello non si cambiano, anzi si cerca d’intessere con loro rapporti più strutturati a medio termine, mentre con quelli di ultimo livello si può anche instaurare un rapporto mordi e fuggi. Ma in ogni caso si era cominciato a parlare di re-shoring e in alcuni paesi, come la Germania e la Svezia, avevamo assistito anche a un flusso di ritorno da parte di aziende che si erano delocalizzate.
D’altro canto c’erano invece tendenze che andavano in una direzione inversa, si parlava di “smaterializzazione” della produzione, di stampanti 3D e quindi la lontananza fisica tra azienda committente e azienda fornitrice non diventava più un problema.
Ma il tema del re-shoring fu riproposto in maniera strisciante per tutto il decennio e non poté più essere cancellato dall’agenda. Poi arriva la pandemia e si mette in discussione tutto, nella manifattura la lean production non funziona più se non altro per le misure di protezione dal Covid, la logistica, nata per ridurre al minimo le scorte, sembra aver imboccato una specie di percorso di ritorno perché le aziende hanno ripreso ad accumulare scorte, la logistica dell’ultimo miglio (Amazon e in genere l’industria del delivery) esaspera i suoi parametri di efficienza.
Una recente inchiesta presso le aziende tedesche medio-grandi ha messo in luce che un numero sempre maggiore pensa a riorganizzare la catena di produzione, non hanno magari ancora le idee chiare sul dove e sul come ma sanno che ormai lo debbono fare, indipendentemente dallo smart working. E così arriva il caos nel trasporto marittimo … leggi tutto