di MATTEO DE GIULI PAOLO PECERE
Lo spirito dionisiaco, le trance di possessione, le contraddizioni del turismo:
una conversazione a partire dai viaggi di Il dio che danza.
Per Il Tascabile, Paolo Pecere ha scritto racconti di viaggio e approfondimenti di scienze naturali, neuroscienze, filosofia e letteratura. Il suo ultimo libro, Il dio che danza (nottetempo, 2021), è un viaggio sulle tracce di danze e rituali dionisiaci in giro per il mondo: la Taranta in Salento, il theyyam in Kerala, le danze sufi in Pakistan, il vodu in Benin, gli sciamani in Amazzonia e le tribù urbane di New York. Alcuni frammenti di questi racconti sono già apparsi sul Tascabile. La pubblicazione del Dio che danza è lo spunto per questo dialogo.
Matteo De Giuli: Voglio partire dalla “categoria merceologica” del Dio che danza. Perché esce nella collana di saggi di nottetempo e ha quaranta pagine tra note bibliografiche e indice. Ma per buona parte è un libro di racconti di viaggio che si nutre dei pensieri e delle inquietudini di uno scrittore.
Nel primo capitolo ricostruisci le origini culturali della Taranta. Racconti come il suo potere liberatore, esoterico e misterico, con il tempo si sia diluito sempre più; e come da qualche anno, con l’affermazione turistica del Salento, il rituale si sia snaturato in un innocuo ballo vacanziero. Per illustrare tutto questo scegli vie laterali, inizi dai ricordi delle estati della tua infanzia, quando tornavi dai parenti in Puglia:
A volte il tempo collassa. Secoli, generazioni, nascite e morti, cicli vegetali e animali scandiscono il silenzio. (…) [Paolo] vorrebbe dormire al trullo, un rifugio inventato tra gli ulivi. Gli piacciono il vecchio pozzo sul cui fondo vede ballare monete d’argento, gli strumenti appoggiati sul ripiano di malta, il profumo di polvere e olio. Ma gli adulti, dopo la morte del nonno, preferiscono restare in paese, e il trullo viene venduto. Sul pendio che porta al centro storico c’è “casa vecchia”, dove a volte va a dormire. Anche questa non sembra una casa: è una sala comune con i letti allineati in salette laterali, chiuse da tovaglie appese. Ma anche questa, in pochi anni, è sostituita da “casa nuova”, vicino al viale principale, dove i nonni si sono trasferiti mentre i figli studiavano al liceo, e solo qui ormai si può stare dignitosamente. La vita rurale è passata.
Poi in altri momenti il rigore da studioso prende invece il sopravvento. Scrivi di argomenti (trance, possessioni e danze: il tarantismo, appunto, e il vodu, l’āveśa, il candomblé, lo sciamanismo, lo zar, il wajd) di cui di solito non ti occupi, nel tuo lavoro accademico, ma che comunque hai studiato a fondo. Citi e riprendi i lavori di altri, di molti antropologi ed etnografi, oltre che filosofi.
Ecco, negli ultimi anni si parla sempre più spesso di non-fiction narrativa o auto-fiction. Ma se dovessi cercare un riferimento per Il dio che danza guarderei più indietro ancora. I nomi a cui ti rifai, e che infatti nel libro citi molto, sono Ernesto De Martino o Michel Leiris o Alexander von Humboldt, naturalisti, etnografi, antropologi che, in modi diversi, appartengono però a tempi in cui il germe di questo approccio ibrido tra saggio e narrazione esisteva già.
Anzi, scrivere mescolando proprio sentimento e conoscenza, approcci interdisciplinari, storie culturali e cronache personali, a lungo è stata la cosa più naturale per un certo tipo di intellettuali, per un certo tipo di ricercatori.
Paolo Pecere: Ho fatto diversi tentativi prima di trovare la forma adatta a questo libro, poteva avere una cornice narrativa più articolata, poteva diventare un saggio filosofico-antropologico. Dietro la scelta di un saggio narrativo, con un narratore parzialmente connotato, c’è prima di tutto un’esigenza: calare il discorso nel contesto, mettere in campo l’osservatore in carne e ossa con la sua origine e il suo coinvolgimento.
Si tratta di un’esigenza che ho avvertito fin dagli anni degli studi di filosofia, quando invidiavo a storici e antropologi il fatto di analizzare un mondo concreto, mentre tanta filosofia si concentrava (e si concentra ancora) su un soggetto astratto con le sue operazioni cognitive, anche quando insiste sul fatto che il soggetto è situato, corporeo, storico.
La ricerca ha bisogno di non perdere questo contesto, per mettere in luce una serie di presupposti … leggi tutto