Quando negli anni’70 Furio Jesi insisteva a scavare nel linguaggio delle “idee senza parole” nel suo Culture di destra (Nottetempo) – ne ha scritto qui Enrico Manera con finezza e competenza –
molti pensavano che quella sua indagine sui sentimenti profondi, che alludevano a convinzioni, e che spesso testimoniavano di un incontro tra le molte anime del codice culturale del «perbene» non fossero che percorsi di un “eccentrico”, comunque rappresentassero le figure o le «stazioni di posta» del viaggio culturale di un intellettuale il cui fine era «sorprendere». Del resto, anche per la critica letteraria e più generalmente culturale all’avanguardia, era difficile provare a mettere insieme Evola, Mircea Eliade, passando per Spengler, D’Annunzio, per finire a Liala e a Salvator Gotta.
Mezzo secolo più tardi Claudio Vercelli torna anche sulla scorta di quelle suggestioni a riprendere in mano quel linguaggio e quei sentimenti, in un’Italia profondamente cambiata e attraversata da nuove e diverse inquietudini da allora, dove contemporaneamente destra radicale si presenta come conforto o accompagnamento alla crisi, sollecita un linguaggio diffuso timor panico legata alla sensazione di perdere identità di territorio, in un clima di nuova violenza, dove, come ha recentemente ricordato David Forgacs con il suo Messaggi di sangue (Laterza) gli atti del giustiziere hanno riempito le cronache e l’immaginario. Anche noi abbiamo avuto le nostre «piccole Utoya». La prima volta: il 13 dicembre 2011 quando Gianluca Casseri va in cerca dei suoi nemici lungo le strade di Firenze. L’ultima più rappresentativa il 3 febbraio 2018 quando Luca Traini gira per le strade di Macerata.
In quel decennio qualcosa è avvenuto e Claudio Vercelli descrive la fisiologia del fenomeno e ne delinea la genealogia. La fisiologia è facilmente individuabile: sta nel disagio. Disagio: parola dal profilo ambiguo è perché spesso non è disambiguato il margine di comprensione per quel malessere, rispetto alla critica radicale dei suoi fondamenti. «Prendere le distanze», come è noto, è un procedimento che «costa poco».
Più impegnativa è, invece, la dimensione della genealogia. È a quella genealogia che conviene prestare attenzione, perché non è solo un lungo scorrere di immagini, ma è, come aveva proposto Furio Jesi mezzo secolo fa, la costruzione di un linguaggio che ora si tratta per davvero di valutare non come un dato eccentrico, bensì rilevante, comunque importante, di questo nostro tempo.
Con Neofascismo in grigio Claudio Vercelli riapre il cantiere di lavoro che aveva inaugurato nel 2018 con Neofascismi (edizioni del Capricorno) e ridefinisce quelle che in quel testo erano ancora delle ipotesi di lavoro e di ricerca sulla natura, l’identità, e la fisionomia della nuova destra con cui ci troviamo a misurarci: una realtà sociale e politica la cui ambizione è rappresentare il territorio sociale dell’esclusione.
La cui forza d’urto della sua attività di agitazione sta nell’identificare cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, «poteri forti», furto del lavoro, complotti … leggi tutto