Le mie epidemie. Da colera a ebola al Covid-19,
mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel
mondo di Donato Greco, con Eva Benelli
(edizioni ScienzaExpress, 21 €),
ripercorre l’esperienza professionale dell’autore in campo epidemiologico, raccontando le epidemie che ha affrontato e studiato ieri e oggi. Il libro uscirà il 26 aprile: noi ve ne presentiamo in anteprima alcuni capitoli.
Quando tutto ebbe inizio
Sono militare da trenta giorni, soldato semplice al Car di Orvieto. Ho ventisei anni e sono quasi specializzato in malattie infettive, ma già assistente di ruolo nell’ospedale per infetti Cotugno di Napoli.
Nel pomeriggio del 27 agosto 1973, nel cortile della caserma, durante una delle interminabili pause dalle marce, ascolto dalla radio di un commilitone: «Casi mortali di gastroenterite acuta nell’ospedale Maresca di Torre del Greco, forse in trasferimento all’ospedale Cotugno». Mi procuro un po’ di gettoni del telefono e chiamo il mio primario Michele Castaldo in ospedale: è molto preoccupato, parla di una gravissima forma di gastroenterite, sono forse una dozzina di casi, tutti adulti, almeno due anziani morti. Mi presento al capitano e gli chiedo una licenza di due giorni per motivi personali. È titubante: non si concedono licenze ai soldati semplici prima della fine dell’addestramento Car. Gli spiego tutto. Ha letto la notizia sui giornali, mi firma la licenza.
Il 28 agosto scendo dal treno alla stazione di Napoli, dove mi aspetta con la vespa il mio gemello Luigi, gli chiedo di accompagnarmi subito al Cotugno, a casa passerò più tardi. I miei familiari mi rivedranno solo diverse settimane dopo.
Sono le 15, entro in ospedale in divisa e con lo zainetto militare: vado subito a cercare Michele. Lo trovo in grande allarme: sono arrivate due ambulanze da Torre del Greco con altri pazienti in gravi condizioni, li ha sistemati in stanze singole. Ne sono in arrivo altri, non solo da Torre, ma anche da Minturno: la radio ha parlato di sette morti.
Dopo nemmeno mezz’ora le cose precipitano: una decina di ambulanze con gastroenteriti acute, tutte destinate al nostro reparto, sono già per strada. Improvvisamente l’ospedale chiude. Arrivano le “giuliette” della polizia, in cortile compare una camionetta dell’esercito: è il cordone sanitario e nessuno può più uscire dall’ospedale.
Raccolgo un camice e vado in reparto con Michele, arriva Ferruccio De Lorenzo, il direttore, che ci parla di sospetto colera e ci annuncia che campioni di feci sono già in viaggio per l’Istituto superiore di sanità. Ci sistemiamo alla meno peggio per la notte, ma non si dorme un minuto: attacco continuamente soluzioni endovenose mentre gli infermieri cambiano senza sosta le lenzuola ai letti.
Il 29 agosto è un inferno, arrivano almeno cinquanta ammalati. Non sappiamo dove metterli, inoltre nessuno di noi medici ha mai visto un caso di colera, questi pazienti perdono liquidi a profusione, alcuni sono già in blocco renale. Alle 12 arriva il responso dall’Iss: Vibrio cholerae di tipo 1 El Tor. Un team di esperti dell’Istituto è già in viaggio per Napoli.
Nel pomeriggio arrivano i “letti colera” spuntati chissà da dove. Sono brandine di tela con un foro al centro e un secchio sotto. Una fatica assistere i pazienti stando piegati tutto il giorno sulle brandine alte trenta centimetri.
Arrivano anche i rifornimenti per noi: mascherine e guanti di plastica e certe bellissime tute bianche da aviatore… Mi accorgo che Michele, il primario, è quasi in lacrime, affranto, su una sedia. «Michè» gli domando, «che altro è successo?»
«Non usciremo mai di qui.»
«Perché?»
«Sono arrivate le lamette» risponde, «le lamette per farci la barba. Cinque pacchi da dieci a testa! Con una lametta mi faccio cinque barbe, staremo chiusi qui dentro per mesi…»
Non mi riesce di tranquillizzarlo: d’altra parte noi non sapevamo niente sul colera né avevamo idea dell’estensione del contagio … leggi tutto