di Riccardo Falcinelli
Dal Rijksmuseum di Amsterdam al Metropolitan di New York migliaia di capolavori sono liberamente condivisibili.
Noi invece cerchiamo ancora di far pagare dei diritti. Ma al tempo di Instagram, lasciar pubblicare è la più potente forma di promozione
Chi sia stato di recente in un museo pubblico italiano avrà notato che è possibile scattare foto a patto di non usare il flash. Sembra un gesto banale, eppure fino al 2014 era spesso vietato. Tuttavia le foto di dipinti e sculture sono ammesse solo per uso privato: se uno vuole inserirle in un libro o stamparle su una maglietta (e magari venderla), deve farne richiesta al museo o alla soprintendenza e pagare un canone, anche se quell’opera è di pubblico dominio (cioè se sono scaduti i diritti d’autore) e anche se si tratta di un monumento in mezzo alla strada, come il Colosseo.
Insomma, le foto sono libere, ma a patto che restino nei nostri smartphone o su Facebook.
L’articolo 108 del Codice dei beni culturali riconosce infatti ai musei alcuni diritti speciali sulle opere in collezione, che si concretizzano in una sorta di diritto d’autore illimitato nel tempo. E dunque, mentre si può mettere una poesia di Leopardi su una maglietta (e venderla) senza nessuna autorizzazione, lo stesso non accade con quadri e monumenti.
Normale, si dirà: in fondo dipinti e sculture sono oggetti fisici e richiedono una manutenzione di cui la poesia di Leopardi non ha bisogno. Sembra dunque sensato finanziare restauri e conservazione anche con gli introiti dell’uso delle immagini. Ma sarà vero? In realtà la questione è scivolosa e non è detto che ci sia un reale vantaggio per i musei, per la cultura e, forse, nemmeno per i cittadini. Ma andiamo per ordine … leggi tutto