Ipotesi sulla sua sopravvivenza dopo l’obsolescenza del tubo catodico.
Ieri sera, verso le sette, è partito. Per la prima volta, dopo diverso tempo, mi sono accorto di lui. Non sapevo neppure di averlo attivato eppure devo averlo fatto, un po’ come gli “accetto tutto” che quotidianamente spunto su diversi siti Web. Sto parlando del salvaschermo del mio MacBook Pro Retina del 2015.
È bello, mi fermo a guardarlo. Non è facile descriverlo: è come una serie di piccoli segmenti luminosi che si muovo in modo coordinato e, in una coreografia lentissima, formano onde cangianti. Sembrano delle alghe di laguna o dei fili d’erba scossi dal vento. Vado nelle Impostazioni di Sistema e scopro che si chiama Deriva. I suoi colori sono gli stessi dell’immagine che ho come sfondo del desktop: l’Isola di Santa Catalina, preimpostata con l’omonimo sistema operativo del Mac. Deriva, leggo sempre nelle Impostazioni, parte dopo trenta minuti di inattività.
Inizio a pensare a questa cosa che non ho fatto caso al salvaschermo, quantomeno da molto tempo. Eppure nel corso degli ultimi anni, la nozione di “schermo” si è trovata al centro del dibattito nei campi della filosofia e della teoria dei media. Sono usciti importanti libri sull’archeologia degli schermi, sulle loro potenzialità estetiche, sui loro effetti ambientali e sulla loro proliferazione eccessiva.
Mi metto allora a sfogliarli, provo a rileggerli rapidamente, cerco la parola “salvaschermo” per vedere se ne parlano. Faccio la stessa cosa anche con i libri di archeologia dei media che ho a disposizione, poi vado su Google books e Google scholar e scrivo “salvaschermo” e poi “screensaver”. Quello che trovo sono perlopiù vecchie pubblicazioni di informatica e qualche studio riguardante il design delle interfacce, i suoi risvolti psicologici e cognitivi … leggi tutto